Intervista a Gabriela Corini in scena con Cenere alle ceneri
Cenere alle Ceneri penetra nell’anima e nel disagio umano ricordando gli orrori dell’Olocausto
Da questa sera fino al 5 febbraio, in scena al Teatro Trastevere di Roma, lo spettacolo Cenere alle Ceneri un atto unico di Harold Pinter, con Grabriela Corini e Roberto Zorzut. La Corini firma anche la regia, le scene e i costumi. Il testo, l’unico di Pinter ad affrontare il tema dell’Olocausto, racconta di una donna ormai anziana che ha stralci di ricordi di quegli anni di violenze, persecuzioni, ed episodi dei quali non è certa. Ne abbiamo parlato insieme alla regista Gabriela Corini a cui diamo il benvenuto.
Ceneri alle Ceneri è il penultimo scritto di Harold Pinter, e parla della Shoah. Cosa ha rappresentato per lui, ebreo, scrivere una storia che ricordasse l’Olocausto?
Ceneri alle Ceneri è l’unico testo teatrale di Pinter in cui il riferimento alla Shoah risulta molto chiaro. Non che in altre opere non abbia trattato del tema della violenza e dell’oppressione, come per esempio nelle Voci della Montagna e ne Il Bicchiere della Staffa, scritte oltre 10 anni prima, ma, in queste, molto probabilmente violenze ed oppressioni sono riferite ad altri fatti storici contro i quali si rese anche parte attiva, (anche se si insinuano si dà ora riferimenti alla persecuzione ebraica attraverso i nomi dei protagonisti, come Sara o Joseph, o i cani Doberman che li attaccano…), Pinter infatti “militò” culturalmente contro la rivoluzione in Cile, la guerra in Iraq, la guerra in Afganistan ed altre forme di limitazione della libertà.
Perciò, penso, che l’aver scritto, da Ebreo un’opera tardiva sull’Olocausto, potrebbe significare che questo abbia lasciato su di lui una sofferenza così intensa da portarlo quasi a non riuscire ad esprimerla, se non alla fine di una lunghissima carriera.
Cosa ha trovato lei di interessante in questa drammaturgia di Pinter?
Ho adorato questa pièce dalla prima volta che l’ho letta, per il suo modo insinuante di infiltrare il ricordo del dramma in un contesto borghese e quotidiano, ormai lontano ed al sicuro dall’orrore della terribile tragedia umanitaria, ho amato questo contrasto che esiste sempre, nella storia, per poter andare avanti. Quando ero piccola e mia madre mi raccontava di come a Firenze le fossero state strappate le sue amichette e degli orrori che si svolgevano, io non riuscivo a capacitarmene, così avvolta e protetta da quegli anni di pace e benessere che stavamo vivendo negli anni ‘60. Ma, i ricordi non si possono seppellire nella vita tranquilla, prima o poi riaffiorano ed è stata questa sorta di “rinascita” verso la verità di questa donna, vittima di atrocità, di strazianti delusioni, di violenze subite, prigioniera dentro un silenzio scioccante al fine di una sopravvivenza che mi ha completamente rapita. Rebecca esplode, e con lei crolla la falsità in cui rimaneva congelata. È la vittoria della verità.
I protagonisti della rappresentazione sono una coppia o meglio, lei, anziana donna, che ricorda la violenza di quel periodo. Ricordare è fondamentale, lei come vede questo compito dato a noi che non abbiamo vissuto quegli orrori?
Chi ha vissuto l’orrore in prima persona non potrà mai dimenticare, potrà cercare di rimuovere, ma ciò che è stato vissuto resta inciso dentro l’anima. A chi non lo ha vissuto, ma è a conoscenza dell’accaduto passa il testimone, per non permettere che in futuro possano accadere ancora atrocità di questo tipo, per non permettere di sorvolare su tragedie che non riguardano solo chi le ha vissute, ma tutta la comunità, perché la sofferenza per la Shoah ha pervaso tutta l’umanità.
Ciò che fa molto male alla nostra emotività non è tanto la violenza fisica, quanto la violenza psicologica, la paura, e tutto ciò che la circonda, in questa narrazione che ruolo ricoprono?
Pinter, vivendo con la sua famiglia a Londra, non ha mai subito la deportazione, ma ha vissuto l’umiliazione ed il disagio della discriminazione, dell’umiliazione, della paura. È stato anche costretto per motivi di sicurezza ad allontanarsi dalla famiglia giovanissimo provocandogli un trauma.
Tutto questo si denota dalla sua opera, chiamata spesso Teatro del disagio, o Commedia della minaccia. Spesso, nelle sue opere, la minaccia è costante ed è come se si fosse in attesa di un’esplosione di violenza estrema prossima. Anche in questa opera, la paura ed il disagio di Rebecca, la protagonista femminile, sono uno dei fili conduttori.
Sono tante le domande che si alternano, lasciando lo spettatore sempre in sospeso. Come vivono gli spettatori questa sensazione?
Come molti testi di Pinter, Ceneri alle Ceneri non narra, non chiude, ma lascia spiragli all’interpretazione personale della vicenda che è accaduta e della vicenda che sta accadendo in questo momento…. È il bello di Pinter, la magia che attornia il dubbio, l’ipotesi sulla verità…. È quasi una sorta di thriller “aperto”, a cui ogni spettatore potrà attribuire il suo percorso narrativo individuale. Ancora oggi, recandomi nei luoghi dove abbiamo fatto le rappresentazioni, le persone che lo hanno visto, incontrandomi, desiderano discutere e scambiare pareri con me sull’ipotesi del reale svolgimento dei fatti…. ed io, dal canto mio, mi sono fatta un’idea precisa, che credo di indicare, ma il testo non mi permette di esprimere fino in fondo, di rendere “certa”… E questo è molto bello, offre al pubblico l’opportunità di non essere solo spettatore, ma addirittura, in un certo senso, “autore”.
Da regista com’è stato prepararlo?
È stato preparato partendo dal cuore. Ed arrivando all’anima.
Cosa ha dato a voi questo spettacolo e cosa avete dato voi a lui?
Io ho dato ciò che potevo dare, innamorata come sono del testo e dell’opera dell’autore. Il testo mi sta dando una grande opportunità di crescita, giorno dopo giorno, rappresentazione dopo rappresentazione, e credo che sia lo stesso anche per il mio bravissimo partner di scena e valido collaboratore Roberto Zorzut.
Grazie per essere stati con noi e in bocca al lupo!
Lunga vita al lupo!