InCorti da Artemia 2025: Così è abbastanza, se vi pare!

In scena il corto che parla del non essere abbastanza

Così è abbastanza, se vi pare! scritto e diretto da Elisabetta Rossi, con Monica Cecchini, Elena Di Lauro e Viviana Mariani, è uno dei corti in scena al festival InCorti da Artemia 2025, ideato e diretto da Maria Paola Canepa direttrice artistica del Centro Culturale Artemia di Roma. Il festival divenuto una piazza importante del panorama teatrale italiano, presenta al pubblico corti che potranno divenire spettacoli e che si contenderanno le preferenze di pubblico e giuria presente in platea.

Benvenute! Il vostro corto prende spunto da Pirandello, cosa vi ha spinto verso la sua opera e il suo lavoro?

Elena: È soprattutto il titolo di quest’opera che dialoga con Luigi Pirandello. Nel corso della storia, poi certamente, ciò che riguarda l’aspetto metateatrale, si abbina di conseguenza.

Il titolo, appunto, nacque per esaudire il tema portante dell’opera stessa, un tema imposto da un precedente concorso teatrale, il primo a cui questo corto ha partecipato e per cui questo corto è nato. Dalla tematica del non essere abbastanza, passando per il disvelamento teatrale, il riferimento all’autore in questione divenne immediato.

Certamente Luigi Pirandello è un autore che dialoga col nostro io più profondo. È fondamentalmente il primo che ci insegna qualcosa di estremamente catartico: il teatro è rappresentazione della vita; ogni giorno ognuno di noi indossa una maschera nella vita quotidiana per cercare di sopperire a quel senso di inadeguatezza che prova nella società. A teatro le maschere si indossano costantemente, si sono sempre indossate, materialmente e non e l’interpretazione di un personaggio diverso da noi è un giuoco a cui prendiamo parte consapevolmente e aderendo alle specifiche regole.

Se poi ci riferiamo direttamente al nostro titolo e al rimando a Così è se vi pare, il tutto prende un ulteriore spessore: L’opera quando andò in scena suscitò molto sgomento, perché per la prima volta un’opera teatrale, criticando aspramente la società borghese, si concludeva senza trovare un finale, senza svelare alcuna verità.

Nella sua opera Pirandello lo faceva con l’idea del teatro nel teatro. Voi avete scelto di farlo in forma comica. Quali sono gli accorgimenti drammaturgici e scenici che vi portano verso la comicità del testo?

Elisabetta: Abbiamo giocato con il titolo inserendo la parola abbastanza ad un testo teatrale ben conosciuto, sperando che il sommo Pirandello possa scusare un gesto tanto sfacciato! In realtà si tratta d’un omaggio alle sue opere e alla sua innovativa idea del teatro, luogo questo in cui al meglio le maschere sociali vengono rappresentate.

Ho usato la forma comica perché è più congeniale al mio carattere e al mio stile e perché credo che il messaggio che si vuol fare arrivare al pubblico, giunga con una maggiore energia e schiettezza. Non è un testo superficiale, tutt’altro, ma scorre leggero e la rottura della quarta parete, catapulta i sottili dilemmi dei personaggi direttamente tra le braccia degli spettatori.

I vostri personaggi sono una madre, una figlia e una terza persona. Che cosa rappresentano e come vi siete preparate ad interpretarli?

Elena: I personaggi della mamma, della figlia Carla e della fidanzata Agnese, sono personaggi ambivalenti. Loro tre sono sì rappresentazione dei loro personaggi ma poi anche rappresentazione delle attrici che li interpretano. Diventano infatti un’esemplificazione dell’ambizione attoriale, del difficile mestiere che portano avanti, fatto di sogni, di rivalsa e di fatica.

Le tre donne, così tentano, ognuna a suo modo, di far emergere il proprio senso di attorialità: chi criticando aspramente gli autori, chi difendendo il proprio mestiere, forte di avere ancora una carriera da costruire davanti a sé e chi portando avanti, contro ogni aspettativa, l’opera che si sarebbe dovuta mettere in scena, anche a costo di ridicolizzare e di ingraziarsi così il pubblico pagante e giudice.

Di conseguenza i personaggi iniziali, quelli davvero previsti nell’opera, che dovrebbero raccontare un amore omosessuale che passa per il giudizio aspro di una madre che sminuisce la figlia, lasciano spazio alle attrici fittizie e al loro difficile compito sul palcoscenico, che le lascia sgomente, di fronte alla degenerazione della rappresentazione.

Il testo parla anche di attori, come vi sentite voi in questo ruolo?

Monica: Se è vero, come diceva Marcel Proust, che ognuno di noi è una sorta di cimitero in cui vengono sepolti tutti gli atteggiamenti delle persone che abbiamo conosciuto nel corso della vita, in modo molto più leggero, posso dire che per me recitare significa anche metabolizzare e poi portare a galla tutto ciò osservo nell’ambito di una quotidianità piuttosto variegata, rendendolo funzionale a un progetto.

Per ciò che mi riguarda, inoltre, è probabile che mettere in scena personaggi sempre diversi mi sia terapeuticamente utile, evitandomi così di recitare nel corso delle mie giornate. Tutto questo però, mantenendo come stella polare il fatto che le interpretazioni debbano sempre essere messe al servizio del testo e della regia, soprattutto nei casi in cui questi elementi finiscano per coincidere.

Il gioco è il fondamento del teatro? Chi o cosa lo può rendere unico?

Elisabetta: Mio padre ripeteva spesso che il gioco è una cosa seria! Sostenere chi ha paura di mettersi in gioco e diffidare di chi se ne astiene! Ancora lo ringrazio per questo.

Recitare è qualcosa che fanno i bambini già in età prescolare. È quasi un istinto primordiale quello di volersi mettere nei panni altrui, parlare con un’altra voce, provare andature nuove, dire frasi che non ci appartengono.

Il teatro ci permette di infrangere i rigidi schemi che la società impone relegandoci sempre al personaggio che cuciamo o ci cuciono addosso. Per questo è il gioco per eccellenza! Se si ha poi la fortuna, come nel nostro caso, di viverlo in totale armonia e in amicizia, significa aver ricevuto un dono enorme dalla vita e divertimento assicurato!

Come vi state preparando al debutto sul palco di InCorti da Artemia e cosa vi aspettate da questa esperienza?

Viviana: Sicuramente possiamo dire come NON risponderemmo mai a questa domanda: Ci stiamo preparando al meglio, vogliamo assolutamente vincere!

Crediamo fortemente che questo sia il punto di vista che ci rappresenti meno. La vittoria non è tutto. Vediamo la gara come un’opportunità tutta nostra per dare il massimo, per sentirci soddisfatte del lavoro di squadra, non dimostrando tanto qualcosa agli altri, quanto a noi stesse. Non c’è mai una fine nella preparazione di una nostra messa in scena – di qualsiasi entità essa sia – perché c’è sempre qualcosa in più da imparare. Questo è il nostro nutrimento artistico.

La nostra vera sfida è quella di restare fedeli il più possibile all’immaginazione della nostra autrice, di entrare nel cuore dei personaggi che interpretiamo, di dare loro voce e vita. Ciò che invece ci aspettiamo da questa esperienza è riuscire a comunicare, stimolando possibilmente le diverse sensibilità artistiche del pubblico in una danza incessante di risate e riflessioni.

Ambiamo, in sincerità, ad una crescita condivisa, senza confronti, arricchendoci dell’esperienza altrui, guardando la nostra regista e sentendoci, come sempre, complici di qualcosa di unico.

Grazie e in bocca al lupo!

Sissi Corrado

Responsabile del Blog Interessi tanti: lettura, scrittura, teatro, cinema, musica, arte, collezionismo, sociale, ecc.

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