Blas Boca Rey in scena con la storia di Vincent Van Gogh
operazione di ciclopica difficoltà e titanica arditezza
Dal 13 al 25 febbraio, a Teatro Brancaccino di Roma, è in scena lo spettacolo di Blas Boca Rey, Vincent Van Gogh Lettere a Theo, una produzione di “Nutrimenti terrestri”. Si tratta ovviamente di una operazione di ciclopica difficoltà e titanica arditezza; lo scetticismo nei riguardi della scelta di trasporre a teatro un epistolario (e che epistolario!) non può non accompagnare lo spettatore che varchi la soglia del Brancaccino. O, almeno, lo spettatore che conosca la vita tormentata di Van Gogh, e l’amore, l’odio, le difficoltà, l’anima, il sangue che scorre in quelle lettere di insuperata, e forse insuperabile, lucidità.
Blas Boca Rey, con virtuosistica bravura, tuttavia, riesce a dissipare, gradualmente, i dubbi che potrebbero assalire quello scettico spettatore che ha paura che le lettere vengano profanate. Resta ovvio che rendere l’ésprit complessivo dell’opera dell’artista olandese non può darsi, dal momento che il corpus dell’epistolario consta di 821 lettere, di cui ben 668 indirizzate all’amato fratello Theo; impossibile una ricostruzione fedele, “filologica”, di tutto ciò.
Detto questo, lo spettacolo allestito al Brancaccino è tanto ambizioso quanto lodevole. Quello che Blas Boca Rey vuole trasmettere al pubblico è un alto messaggio umano, laddove l’attore in scena è solo uno, accompagnato dal musicista Luciano Triastaino e quel monologo che indica una straziante, commovente solitudine, sembra volere rinverdire la memoria dell’uomo Vincent prima che dell’artista. E l’operazione – si diceva – è degna di lode perché, appunto, non è anche questo il ruolo dell’arte? Quello di stabilire un dialogo, anche laddove sembra che un dialogo sembra impossibile? La desolante fine di Van Gogh non è per questo edulcolorata: Blas Boca Rey vuole rendere concreta, tangibile, quasi palpabile la tragedia di un di un uomo, di un artista che, proprio per essere un artista, per dirla in termini kafkiani, non era un gigante, ma era intrappolato nella gabbia della propria esistenza.
Lo spettacolo colpisce dunque come un pugno sul viso, la realtà della sofferenza viene spietatamente portata sul palco, senza che venga addolcita da facili sentimentalismi o ironico distacco. Ciò che si vuole portare sul palcoscenico sono, dunque, delle tappe del percorso artistico di Van Gogh tramite le lettere che egli inviò al fratello Theo, per comprendere, in tal modo, sinteticamente, la sua parabola umana, l’ardore sentimentale, il vedere più in là, che lo portarono alla follia, alla morte e, paradossalmente, ingiustamente, ad una fama solo postuma.
Per raccontare tutto ciò, si è scelto un metodo di recitazione convulso, nevrotico. L’attore parla velocemente, come in preda a raptus maniacali, per poi ricadere in frasi depressivi. L’umanità e il dolore che trasudano dalle lettere di Vincent sono rese bene, e spiazzano lo spettatore, soprattutto lo spettatore che cerchi una catarsi. Non si tratta, dunque, di uno spettacolo conciliante, ammiccante, ma di uno spettacolo integralmente onesto. Ad accompagnare Blas Boca, il maestro Luciano Tristaino, che, suonando i flauti, rende l’atmosfera struggente e malinconica. Si tratta, in definitiva di una trasposizione teatrale importante, coraggiosa, da incoraggiare nonostante l’ovvia arditezza. Ma un plauso sincerissimo non può non pervenire per la visione artistica commovente e sentita dello spettacolo.
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