I protagonisti de La cattiveria
Ph Sergio Battista
Incontro con Roberto Galano, Letizia Rita Amodeo e Giuseppe Rascio, il cast vincitore del DOIT Festival 2024
La Cattiveria, in principio era il verbo amare, è lo spettacolo vincitore del DOIT Festival 2024 ideato e diretto da Cecilia Bernabei e Angela Telesca che lo curano con grande attenzione. Il festival ha avuto come location il Teatro Ygramul di Vania Castelfranchi, e l’Ar.Ma Teatro di Daria Veronese. Roberto Galano, regista, Letizia Rita Amodeo autrice e attrice, Giuseppe Rascio attore, arrivati dal Teatro Dei Limoni di Foggia, hanno affascinato tutti con il loro spettacolo che parla di teatro, di morte, di vita, con elementi shakespeariani uniti alla tradizione pugliese.
Un testo che fa molto ridere, spinge alla riflessione e che è stato interpretato in maniera coinvolgente dagli attori in scena. Ho rivolto a loro alcune domande, per entrare ancora di più nei misteri del testo, nelle riflessioni, nel modo di lavorare del Teatro Dei Limoni, nella sete che c’è di nuova drammaturgia per il teatro, che non è solo un modo per esporsi, quando un modo per dire qualcosa, evidenziare situazioni, accoglierle con mente critica, farsene custodi e tanto altro ancora.
Benvenuti a tutti voi. La cattiveria, in principio era il verbo amare è lo spettacolo vincitore del DOIT Festival 2024. Cosa avete provato all’annuncio della vittoria?
Roberto Galano: Se devo essere sincero, avevo una buona sensazione sin dall’inizio, la replica è andata benissimo, gli attori hanno dato il massimo e il pubblico era davvero molto coinvolto in ogni passaggio e cambio emozionale, dal grottesco al surreale fino al drammatico. Insomma, ero certo che avremmo fatto una buona figura. Certo sentirsi proclamare Vincitori come miglior spettacolo del Festival fa sempre un certo effetto.
Letizia Rita Amoreo: Tantissima gioia!
Giuseppe Rascio: Naturalmente all’annuncio della vittoria l’emozione è stata enorme, siamo venuti a Roma con molte speranze e fiduciosi del nostro spettacolo ma la consacrazione di un premio ripaga certamente il nostro impegno.
Come nasce il testo?
Letizia: Il testo nasce quasi per gioco, in un periodo in cui mi ero addirittura presa una pausa dal teatro per dedicarmi ad altre cose. Avevo alcuni appunti di dialogo segnati su un’agenda: Addolorata, Incoronata e Pietà, due attori travestiti da vecchie prefiche del Sud Italia, e un’attrice più giovane, fanno la veglia alla bara di un nobile. La mia intenzione iniziale era quella di fare della satira politica, continuavo a chiedermi chi potesse essere il defunto in questione e, a un certo punto tutto mi sembrava collegarsi ad Amleto. Da lì è arrivato il resto.
Naturalmente alcune cose sono cambiate in corso d’opera, le due prefiche sono passate a essere un uomo e una donna, la parte satirica è stata “sacrificata” per cedere il posto a una dimensione più intima, in qualche modo autobiografica, mantenendo sempre una linea dissacrante. E la povera Pietà, sfortunatamente, “l’è morta”. Insomma, il gioco è diventato più serio.
Il testo presenta molte parti ironiche e divertenti, nonostante il tema. Come vedete voi la nuova drammaturgia?
Roberto: Credo che la nuova drammaturgia debba essere anche questo, parlare e far riflettere su grandi temi con leggerezza, così da spiegare in modo semplice ciò che attanaglia l’animo umano. E anche il recupero, la riscrittura e l’analisi dei grandi classici che ancora restano pilastri inamovibili.
Letizia: Questa è una domanda molto difficile. È vero che questo spettacolo cerca di affrontare in modo ironico delle cose che, altrimenti, rischierebbero di risultare pesanti, se non addirittura retoriche, però non credo che questa cosa sia rappresentativa della nuova drammaturgia.
Giuseppe: Il mio modo di vedere la nuova drammaturgia è proprio questo, il testo di Letizia Amoreo rispecchia pienamente quello su cui, i nuovi autori dovrebbero puntare.
Protagonista del testo è una giovane attrice che vuole e può interpretare il ruolo maschile di Amleto, uno dei più amati e desiderati dell’elenco shakespeariano. Come lo ha delineato nella sua drammaturgia? È partita da un punto di vista femminile?
Letizia: Come dicevo, inizialmente i protagonisti erano due uomini che interpretavano dei ruoli femminili. Amleto è stata la chiave per inserire un’attrice. Mi ha sempre affascinato tutto quello che non è definito attraverso un genere, quindi il punto di partenza è stato proprio questo. Però, in effetti, a un certo punto mi sono chiesta perché stessi scrivendo per degli uomini.
La verità è che, nonostante le cose inizino a cambiare sotto questo punto di vista, risulta ancora molto complicato confrontarsi con le rappresentazioni femminili, anche se a farlo è una donna, anche quando le si vuole descrivere in modo differente. È come se una parte debba sempre prevalere sull’altra, a discapito della complessità dell’essere umano. È un paradosso, è frustrante, ma è anche una sfida.
Tornando a Shakespeare, se l’autore non ci avesse dato un’indicazione precisa sulla sua appartenenza di genere, Amleto potrebbe essere una piccola principessa guerriera e la storia non cambierebbe di una virgola. Anzi, alcuni suoi conflitti potrebbero risultare quasi più interessanti. Quello che accomuna Addolorata, la protagonista de La Cattiveria, con Amleto, è il fatto che entrambi i personaggi stanno cercando di elaborare un lutto indossando una maschera (Addolorata interpretando Amleto, Amleto fingendosi pazzo), e entrambi ricorrono al teatro, se pure in modo diverso, per rivivere il loro trauma.
La figura di Amleto, legata alla morte, come si coniuga con la tradizione funeraria pugliese?
Roberto: Per quanto mi riguarda ho sempre trovato la morte in Amleto un po’ “esibita”, l’utilizzo delle prediche pugliesi è anche un modo per giocare in modo grottesco ed esorcizzarla con il sorriso.
Che differenza c’è tra la considerazione della morte in passato e quella di oggi?
Letizia: Visto il periodo storico che stiamo ri-vivendo, direi nessuna. Anzi, sembra quasi che la considerazione della vita stessa abbia perso di valore. La morte è stata spettacolarizzata e mercificata come qualsiasi altra cosa, e il risultato è che non ha più un impatto emotivo significativo su di noi.
Lo spettacolo cerca di portare anche questo messaggio; i personaggi si muovono in un contesto di forti squilibri politici e sociali, e vengono continuamente interrotti dal suono delle campane a lutto. Eppure tutto questo pare non toccare minimamente la protagonista, incastrata com’è nel suo dramma personale. Non a caso fa la prefica di mestiere, senza sapere nulla sui morti che va a piangere.
Giuseppe: Generalmente parlando, per me, tra il presente e il passato, la considerazione sulla morte rimane e rimarrà sempre la stessa ovvero che fa paura a tutti.
Qual è il rapporto che avete voi con la morte?
Roberto: Personalmente non ho un buon rapporto con i finali in generale. Cerco sempre di evitare riti funebri, cimiteri, anniversari. Citando Gassman “la morte è volgare. Di cattivo gusto”.
Letizia: Attualmente è abbastanza sereno. A volte mi rendo conto di dare troppa importanza ai problemi quotidiani, di correre e di affannarmi inutilmente per raggiungere qualcosa che neanche io so cos’è, e pensare che il tempo che ci è concesso sia limitato, mi riporta in qualche modo con i piedi per terra, nel “qui e ora”. Però non è sempre stato così, ho dovuto lavorarci su. Da buona atea, l’argomento è sempre stato fonte di riflessione per me. Certo, se potessi scegliere, mi piacerebbe essere immortale.
Giuseppe: Come direbbe Incoronata, ovvero il mio personaggio nello spettacolo, “A me la morte mi fa SCHIFO… puhua!”
Cosa rappresentano nell’intimo i personaggi in scena? Come li avete preparati?
Letizia: Quando ho fatto leggere il copione a Roberto Galano, lui aveva già inquadrato l’anima dei personaggi senza che io dovessi spiegare nulla. Il resto è venuto tutto in modo naturale e penso che in questo abbia contato molto la serenità e l’entusiasmo che hanno accompagnato la preparazione dello spettacolo.
Giuseppe Rascio è uno degli attori più bravi che io abbia mai visto in scena, oltre che una persona splendida. Ma anche il resto della squadra è stata di supporto. Il nostro compositore, Giovanni Russo e la nostra costumista, Vize Ruffo, sono state presenze fondamentali, fatico a ricordare una prova in cui non fossero lì presenti a curare tutto nei minimi dettagli.
Quando si lavora in un ambiente del genere, avviene una specie di magia. Quindi, in realtà, non potrei rispondere a questa domanda. Io ho scritto dei personaggi, ma ciò che poi li muove in scena, la loro ragione di esistere in pratica, prende vita esattamente sul palco, e a tutt’oggi rimane un mistero perfino per me.
Giuseppe: Intimamente i personaggi in scena rappresentano per me due dolci e ingenue vecchiette che cercano di trovare una risposta ai loro continui dubbi. Proprio da qui è poi iniziato il mio lavoro sul personaggio, l’aggiunta di una giusta caratterizzazione fisica e l’ausilio di un dialetto garganico in stile gramelot, lo ha arricchito di una gradevole e misurata ironia che spero piaccia.
A livello registico, cosa ha preferito mettere in evidenza e perché?
Roberto: Come regista cerco sempre di raccontare la storia scritta dal mio punto di vista, ma senza sostituirmi a quello dell’autore o degli attori. Non credo nella direzione assoluta. Tutti collaborano alla creazione raccontando a modo loro la stessa storia. Il regista deve essere colui che vede e valorizza tutti i racconti scrivendone in scena uno nuovo.
Cosa volete che arrivi al pubblico?
Roberto: Che non bisogna struggersi con troppa forza perché in fondo tutto ha una fine, compresa la fine.
Letizia: Da spettatrice, trovo sempre molto interessanti quegli spettacoli che mi suggeriscono delle suggestioni e mi portano a pormi delle domande su di me, su quello che ho visto. Vorrei arrivasse questo e che il pubblico riuscisse a identificarsi in quelle emozioni che pervadono il testo.
Di recente siamo stati a Salerno e una coppia è venuta dietro le quinte a chiederci delle cose sullo spettacolo, perché tra loro si era aperto un dibattito su alcuni punti. È sempre molto gratificante quando accadono cose del genere, significa che ciò che si vede mette “in crisi” lo spettatore e lo porta a riflettere. Per me il teatro è sempre stato come la materializzazione di una scatola onirica, simboli da elaborare e fare propri, e credo che La Cattiveria rispecchi questa mia visione.
Ho cercato di scrivere qualcosa che seguisse principalmente i miei gusti e il mio modo di vivere il teatro. Sono consapevole che non tutti cerchino questo, ma facciamo pur sempre un lavoro che dovrebbe rimanere svincolato dal compiacere-piacere a ogni costo, e l’arte in generale richiede una dose elevata di verità, altrimenti rimane solo intrattenimento. Di conseguenza, la verità va “mascherata”, e il gioco sta nell’interpretarla attraverso il proprio sentire.
Cosa vi aspettate dopo la vostra vittoria al DOIT Festival?
Roberto: Non ci resta che l’UBU e il TONY AWARD.
Letizia: Io vorrei poter continuare a portare questa storia in giro, e sicuramente la vittoria al DOIT è un bel “documento” da mostrare per presentarsi. Mi auguro che questa sia anche l’intenzione di Galano e Rascio, altrimenti sarò costretta a tirare fuori l’Addolorata che è in me, e trasformare lo spettacolo in un monologo…
Giuseppe: La vittoria del DOIT festival come ben sappiamo è un ottimo riconoscimento nel panorama teatrale italiano. Sicuramente ci darà l’occasione e l’opportunità di far parlare bene di noi ma come si può immaginare non sarà assolutamente un traguardo, anzi uno slancio in più per continuare a impegnarci e far meglio questo bellissimo lavoro.
Grazie per essere stati con noi!
Letizia: Grazie a te per il tempo che ci hai dedicato!
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