Il Giorno della Memoria: necessità di ricordare
Il dopo non sarà più come il prima e non lo si può pensare come il prima
La Storia è costellata di date che rappresentano uno spartiacque: c’è un prima e un dopo. Il dopo non sarà più come il prima e non lo si può pensare come il prima.
Partendo da un tempo a noi vicino, il 2020 con la pandemia da covid19, il 2001 con le Torri Gemelle, il 1989 con la caduta del Muro di Berlino e poi via via fino ad arrivare al genocidio perpetrato dai nazisti nei confronti del popolo ebreo e non solo.
Fissando la memoria alla Shoah, il rapporto tra progresso e barbarie, la domanda su cosa sia l’umano, sono sicuramente passati attraverso i forni crematori, come dice Guccini “passato per il camino/e adesso sono nel vento”.
Pochi anni dopo Auschwitz nel 1949 Theodor Adorno, il filosofo della scuola di Francoforte, in “Critica della cultura e società” scriveva: “Quanto più totale la società, tanto più reificato lo spirito e tanto più paradossale la sua impresa di svincolarsi dalla reificazione con le sue sole forze. Persino la più lucida consapevolezza dell’imminente catastrofe rischia di degenerare in chiacchiera inane. La critica della cultura si trova davanti all’ultimo stadio della dialettica di cultura e barbarie.
Scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie e ciò avvelena la consapevolezza stessa del perché è divenuto impossibile oggi scrivere poesia.”
Adorno non intendeva certo con queste parole enunciare un giudizio sul futuro della poesia come genere letterario, ma esprimere piuttosto un dubbio rispetto alla capacità dello stesso pensiero critico di misurarsi con lo sterminio. Qualche anno più tardi però Adorno precisa: “Forse dire che dopo Auschwitz non si può più scrivere una poesia è falso: il dolore incessante ha tanto il diritto ad esprimersi quanto il martirizzato ad urlare. Invece non è falsa la questione, meno culturale, se dopo Auschwitz si possa ancora vivere, specialmente lo possa chi vi è sfuggito per caso, e di norma avrebbe dovuto essere liquidato…”. Quasi prefigurando il suicidio di Primo Levi che attraverso le scrittura aveva provato a dare forma all’indicibile.
Dopo Auschwitz di sicuro non sarà più possibile scrivere poesie come si faceva prima, perché Auschwitz rappresenta un “rottura di civiltà” e costringe il pensiero a ripensare se stesso alla luce della catastrofe umana. Chi scrive poesie deve fare i conti con quel prima, con lo spartiacque tra “barbarie e civiltà”.
Il poeta Kavafis in una sua poesia del 1904 “aspettava i barbari”, come soluzione alla decadenza: “E adesso, senza barbari, cosa sarà di noi?/Era una soluzione, quella gente”. Trent’anni dopo purtroppo “i barbari” non furono la soluzione, ma essi stessi il problema. E la poesia non poteva più essere scritta come prima, perché la “rottura della civiltà”, i barbari tanto attesi, costringono gli stessi poeti a ripensare il mondo alla luce della catastrofe. Ma la vita va oltre la catastrofe, e allora i poeti che pure hanno vissuto quell’orrore indicibile e impresentabile hanno dovuto fare i conti con questa storia e nelle loro poesie hanno scritto parole che esprimevano tutto il peso di quella separazione: “barbarie o civiltà”. Ma quelle parole sono andate oltre la condanna perché occorreva capire la Shoah, occorreva capire perché l’indicibile era accaduto. E allora la barbarie si fa storia senza assumere lo sguardo del giustiziere o di colui che giustifica, ma assumendo l’intelligenza di ciò che è accaduto.
La Shoah, nel corso della storia umana non è stata né l’unica né sarà l’ultima infamia che gli uomini possano compiere. Nel corso del tempo vi sono state altre infami violenze che hanno fatto anche più vittime. Interi popoli cancellati senza che abbiano potuto lasciare a noi testimonianza del loro passaggio sulla terra. Ma tra tutte le infamie della storia la Shoah è al suo vertice perché unisce barbarie e razionalità scientifica, ciò che c’è di più selvaggio e primitivo nell’uomo con la sua potenza tecnocratica (la scientificità della soluzione finale). Insomma non “civiltà o barbarie” ma “arcaicità e modernità”. E allora di tutto questo occorre farne memoria, perché la Shoah parla a nome di tutte le vittime del mondo e della storia. La domanda che ci dobbiamo fare è: Auschwitz fu una “parentesi del secolo” o “memoria del secolo”. Incidente o sindrome. E come è stato possibile che una società dominata dallo spirito razionale e un paese di “alta cultura”, pensiamo a cosa fu la Repubblica di Weimar, potesse creare un terreno propizio all’orrore del secolo. Come è stato possibile che un pensiero per molti aspetti “magico” (come ci mostra lo storico Giorgio Galli, recentemente scomparso, nel suo libro “Hitler e il nazismo magico”) abbia potuto “impadronirsi” di aspetti della modernità quali la burocratizzazione, la tecnica e l’individualismo negativo?
E i poeti, che di quella tragedia hanno raccontato, sono i testimoni di tutte le vittime del mondo e della storia. Ma sono solo poeti. Come si può pensare di eliminare il male se non si affrontano le cause del male?
Ricordiamo tutti il monito di Brecht nell’epilogo di “La resistibile ascesa di Arturo Ui” un testo scritto nel 1941:
E voi, imparate che occorre vedere
e non guardare in aria; occorre agire
e non parlare. Questo mostro stava
una volta per governare il mondo!
I popoli lo spensero ma ora non
cantiam vittoria troppo presto
il grembo da cui nacque è ancora fecondo.
E “quel grembo” sta generando una nuova “barbarie”. La storia ci dice che dopo Weimar il mondo sprofondò nell’abisso della barbarie nazifascista. E il popolo fece finta di non vedere le deportazioni nei campi di concentramento dopo che furono promulgate le leggi razziali. E lì in quelle parole c’era già scritto il finale della storia. Oggi stiamo assistendo ad un nuovo genocidio e lo spartiacque non è più tra “civiltà o barbarie” ma tra i paesi sviluppati e il resto di un mondo che fa fatica ad affermarsi. Ieri erano i campi di concentramento e i forni, oggi le politiche di respingimento e un mare che uccide. Assistiamo impotenti ad un nuovo sterminio di massa, anzi con il nostro atteggiamento silenzioso, quando non complice, diamo il nostro consenso all’azione degli Stati alla “possibilità di uccidere” altri esseri umani che tentano di passare il confine della sopravvivenza. Una nuova barbarie è in corso e i nostri nipoti guardando a questo periodo diranno le stesse parole che noi abbiamo detto ai nostri padri e nonni: come avete potuto accettare l’infamia della storia. Eppure noi abbiamo conosciuto il “mostro”, quel mostro nato dal sonno della ragione.
E allora facciamo che il monito di Primo Levi non rimanga disatteso:
“Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario”. E solo lo studio della Storia può creare quegli anticorpi democratici che ci permettono di comprendere che oggi il tema del fascismo va posto in relazione alla evidente crisi della democrazia e delle sue istituzioni. La crisi economica dal 2008 ad oggi ha fatto sì che la democrazia non venga avvertita più come un valore fondamentale. Il fascismo è visto come un fenomeno lontano e la sua paura non fa più presa. Certe manifestazioni con evidenti simbologie fasciste e naziste vengono spesso catalogate come “goliardia”. Stanno quindi venendo meno tutti gli anticorpi nei confronti dei possibili pericoli per la democrazia, che nessuno oggi può prevedere, pericoli che però vediamo aleggiare nella società, spesso amplificati dai social, come gli episodi di zoombombing, l’ultimo dei quali ha colpito Lia Tagliacozzo, un cognome che è garanzia di ebraismo e della sua tragedia, durante la presentazione on line del suo libro “La generazione del deserto”. A Lia Tagliacozzo nel Giorno della Memoria rivolgo tutta la nostra solidarietà antifascista.
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