Quando i colori si mischiano
Non sono brava a scrivere o parlare di politica, mi occupo di moda infatti, ma senza dubbio le notizie, tutto ciò che succede in Italia e nel mondo è oggetto di mio interesse. Siamo bombardati in questi giorni di commenti, prese di posizioni, tutti schierati da una parte o dall’altra, “è giusto, è sbagliato“, “chiudiamo i porti“, “apriamo i nostri cuori“, “la pacchia è finita“, “non potete più lavorare guadagnando un euro all’ora“, “vengono in Italia facendo crociere con etichetta ONG“, utenti “amici” di Facebook che si rimpallano epiteti tipo ” imbecille“, “fascista“, “razzista” o “se sei cosi buonista, portateli a casa tua“: tutti a parlare a dire la propria, a mettersi in cattedra, a giudicare, bla bla bla.
Ripeto: non entro in merito sulla questione politica, ma voglio porre la mia attenzione sui risultati positivi che un’eventuale “promiscuità” può apportare laddove si parla di moda.
Fondato nel 1999 da Maria Antonietta e Zakaria, AGADEZ é un negozio/laboratorio che propone gioielli di design e una scelta di arte e artigianato africano. Si trova nel centro di Roma vicino al Colosseo, al Celio, un quartiere pregno di storia che ha legami con l’Africa risalenti ai tempi degli antichi romani.
Antonietta si occupa dello stile di AGADEZ e disegna le collezioni, Zakaria segue il prodotto: tutto si svolge tra il laboratorio romano e il Niger.
Antonietta ha iniziato a lavorare a diciotto anni disegnando tessuti per la moda, mentre era all’ultimo anno dell’Accademia di Moda e Costume di Roma. Poi, trasferita a Milano, ha collaborato con diversi stilisti.
Zakaria Yahaya appartiene alla casta dei forgerons (fabbri), coloro che detengono l’estetica nei villaggi tuareg. Tutto cioè che rende belli – dai gioielli, al trucco, alle acconciature – nella società tuareg è compito dei fabbri. La loro estetica é estremamente sofisticata ed ogni aspetto della quotidianità é pieno di bellezza.
Discende da una famiglia di antichi guerrieri e grandi poeti. È arrivato in Italia ventenne.
AGADEZ nella lingua tuareg significa luogo d’incontro, a sottolineare il mix culturale che è all’origine del progetto. I gioielli che disegnano sono il risultato di una storia vera. Possono nascere dalla fantasia di Antonietta oppure attingere al repertorio tuareg di Zakaria, al suo immaginario, ai suoi ricordi d’infanzia legati alle genti e alla natura del suo villaggio. Sono il frutto delle loro vite vissute tra il deserto del Sahara e l’Italia, ogni pezzo racconta di mani e di volti di persone a noi care.
Altro esempio di integrazione è “Vicini d’istanti“, l’associazione nata poco più di un anno fa su iniziativa di ragazzi italiani e africani per “cucire tessili e relazioni”.
“La nostra associazione vuole favorire l’integrazione e cambiare la percezione dello straniero” spiega Maddalena Papini, co-fondatrice di Vicini d’istanti “abbiamo cominciato organizzando feste africane invitando italiani e richiedenti asilo: un modo per conoscerci e stare insieme. Siamo partiti arredando queste feste. Io da sempre ho la passione per il tessile mentre Mamadou Camara, anche lui socio fondatore dell’associazione, era proprio sarto. Così è nata l’idea della sartoria: abbiamo trovato dei formatori e selezionato due tirocinanti ivoriani e, al momento, ci appoggiamo in un locale della Caritas in via Mazzini e da Cantieri Meticci in zona Corticella. Stiamo bene in questi posti ma abbiamo intenzione di partecipare a bandi per crescere e trovare magari un posto nostro”. Un’associazione quindi che ha messo su una sartoria che realizza principalmente capi su misura realizzando collezioni che lanciano il messaggio d’integrazione. Molti dei tessuti utilizzati vengono dall’Africa e le loro fantasie sono forti, colorate e d’impatto quasi a voler comunicare messaggi in codice che esprimono desideri, avvertimenti, rabbia e affetti.
Mamadou è nato a Abidjan, una delle città più importanti per la moda della Costa d’Avorio. È stato educato da suo zio a diventare sarto, aveva anche una boutique nella sua città. Poi è dovuto scappare e la sua è diventata la storia di tanti che attraversano il Sahara, arrivano in Libia e poi in Italia via mare dove ha iniziato un percorso di accoglienza. Insieme a Mamadou in sartoria c’è Issa Pare, uno dei tirocinanti, lui viene dal Mali. “Con un tirocinio di questo tipo un richiedente asilo potrebbe avere una chance in più sul curriculum perché può dimostrare che ha provato a integrarsi. Sono “ragazzi dritti” che sanno cosa vogliono. Spesso ci dimentichiamo che molti non lavorano perché non hanno e non trovano altre opportunità”… “A noi piace parlare di “ri-creazioni” cioè creare di nuovo come forma di rigenerazione urbana e di integrazione tra le persone” aggiunge Maddalena “per farlo abbiamo sarti migranti, tessuti africani e i volontari che ci aiutano a smussare gli stereotipi e la paura che derivano dallo straniero“.
Due esempi di “promiscuità“, di integrazione tra italiani e africani: Agadez e Vicini d’istanti a dimostrazione che lo “straniero” arricchisci la nostra cultura: nella moda stili si incrociano e si creano forme d’arte originali. Un nuovo modo di vestirsi, e non dimentichiamolo, la creazione di lavoro per gli immigrati ma anche per gli italiani.
“Siamo sempre lo straniero di qualcun altro. Imparare a vivere insieme è lottare contro il razzismo” Tahar Ben Jelloun
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