Valentina Esposito racconta Famiglia
Al Teatro Basilica in scena la Compagnia Fort Apache Cinema Teatro
Dal 9 al 12 novembre va in scena a Roma, al Teatro Basilica, Famiglia, della drammaturga e regista Valentina Esposito, fondatrice della Fort Apache Cinema Teatro, una compagnia formata da attori ex detenuti e detenuti in misura alternativa. In scena Alessandro Bernardini, Luca Carrieri, Matteo Cateni, Chiara Cavalieri, Viola Centi, Massimiliano De Rossi, Massimo Di Stefano, Gabriella Indolfi, Giulio Maroncelli, Piero Piccinin, Giancarlo Porcacchia, Fabio Rizzuto, Cristina Vagnoli.
Una sfida che oggi, a distanza di dieci anni, sembra celebrare l’intenso e determinante lavoro svolto negli anni, accanto a chi, dopo errori e percorsi personali, si ritrova a interagire con il pubblico, portando in scena temi che li riguardano da vicino. Uno scambio tra attori e insegnanti, tra pubblico e interpreti, che si evince nella duratura esperienza della compagnia e negli spettacoli che via via, sono stati sempre più apprezzati dal settore teatrale.
Di questo e di altro ho parlato con Valentina Esposito, colei che ha fondato la compagnia, investendo molto della sua professionalità, del tempo e del suo lavoro.
Famiglia al Teatro Basilica farà partire la seconda tournée Nazionale della Compagnia Fort Apache Cinema Teatro. Si riparte da Roma, come sente questo nuovo anno?
Ogni anno è l’inizio di un viaggio in territori sconosciuti, un’esperienza sempre sorprendente, in luoghi da scoprire, con nuove persone da incontrare, collaborazioni da confermare o costruire. È una ricerca costante, un peregrinare continuo, che non ha nessuna destinazione finale all’orizzonte, non abbiamo mai la sensazione di poterci fermare e credo che questa sia contemporaneamente una grande fatica e una straordinaria ricchezza, ciò che rende vitale il nostro lavoro.
Lo spettacolo Famiglia parla di padri, figli, che sono o si sentono lontani. Com’è nato?
Famiglia è nato dalle ombre che il carcere ancora proietta sulla vita libera, da un’urgenza profonda di rielaborazione della sofferenza e dalla necessità di utilizzare il teatro come strumento di analisi e riscrittura del vissuto. Uno spettacolo nel quale, dietro una vicenda familiare tragicamente comune è possibile intravedere in filigrana il processo compositivo, i dolorosi nodi che con fatica e coraggio gli interpreti hanno attraversato nel corso delle prove, il dolore conseguente alla perdita degli affetti nei lunghi anni di reclusione, il senso di colpa per l’abbandono, la difficoltà di risolvere il problema del giudizio dei padri, dei figli, dei fratelli. Quello che Fort Apache porta in scena è la messa in forma di una materia incandescente, ricomposta per lo spettatore alla ricerca dei varchi narrativi che rendano possibile l’identificazione di chi guarda nelle vicende di attori/personaggi che si muovono in precario equilibrio tra la verità della vita e la finzione della scena.
Nelle note di regia, lei parla di ferocia degli affetti, dell’amore, della violenza, della solitudine. Come si manifesta tutto ciò e come lo ha rappresentato?
Non c’è salvezza nella Famiglia. In una struttura assolutamente polifonica (e dunque tragica) ogni personaggio è portatore di un punto vista, di un dolore profondo, vittima e colpevole al tempo stesso, incatenato agli altri in una relazione che è allo stesso tempo affettiva e violenta e dunque senza alcuna possibilità di risoluzione. La vicenda narrata si svolge tutta in una lunga giornata rituale, la narrazione procede insieme ad una cerimonia di nozze in un crescendo che va avanti e indietro nel tempo, in un gioco tra i ricordi della vita passata evocata dai personaggi e il presente di una festa nella quale si confrontano i vivi e i morti, fino al tragico svelamento finale. Ma il matrimonio è solo il pretesto, un momento simbolico per ripercorrere le ragioni profonde d’amore e odio che legano e dividono padri, figli e fratelli, per snodare l’antico tema greco della colpa filtrato da un linguaggio asciutto, crudo e crudele che restituisce tutta la drammatica durezza del racconto e l’autenticità delle vite che lo hanno ispirato.
Nello spettacolo si racconta del matrimonio dell’ultima e unica donna della famiglia. Come viene rappresentata la sua figura all’interno dello spettacolo?
Viola, la sposa, il fiore della famiglia, è una ragazza giovanissima, molto sensibile, tutto la tocca e la ferisce, come non avesse la pelle. A lei, che sussurra invece di gridare, che danza invece di parlare, per riuscire a farsi sentire, lo spettacolo affida la sintesi poetica che illumina la prosa realistica, aspra e inclemente. “Siamo troppo vicini, ma non vicini abbastanza… ognuno vede solo una parte di sé stesso e solo una parte degli altri, nemmeno io riesco ad alzare gli occhi ed afferrare tutto. Le vite di tutti sono bagliori riflessi in infiniti frammenti di specchi, ed echi dall’altro mondo si confondono con i nostri pensieri, un bisbiglio infinito di confessioni, invocazioni, preghiere… come è possibile tenere insieme tanto amore e tanta tristezza di vivere…”.
La compagnia Fort Apache Cinema Teatro è stata fondata da lei nel 2014, com’è cambiata, se lo è, e com’è cresciuta in questi anni?
Certamente la Compagnia è cresciuta, oggi ne fanno parte attori professionisti, danzatori, operatori teatrali, organizzatori, collaboratori, studenti: una comunità di persone che da anni partecipano al Progetto, che ne condividono la sfida sociale, politica e artistica. Quello che sicuramente è cambiato è lo sguardo dei professionisti del settore su questa esperienza, che si è emancipata nel corso del tempo da un’idea di teatro avvalorata dalle evidenti ricadute sociali ma condannata anche artisticamente a vivere nei ristretti contesti del Teatro in Carcere. Oggi è esperienza di punta nella promozione dei nuovi linguaggi artistici legati ad un “Teatro Sociale d’Arte” sospeso fra realtà e finzione, biografia e invenzione, verità e poesia.
È formata da ex detenuti e detenuti in misura alternativa, divenuti professionisti di cinema e palcoscenico, cosa le hanno trasmesso loro e cosa ha cercato di trasmettere lei?
Non è semplice rispondere. Certamente mi hanno trasmesso un’idea di resistenza, la capacità di trovare risorse, di mettere in campo delle forze a contrasto delle difficoltà della vita. E mentre ho cercato negli anni di formazione di trasmettere loro delle competenze attoriali, sono loro che hanno anche trasmesso a me una grande lezione di teatro, facendomi fare esperienza concreta di ciò che significano termini quali necessità, credibilità, organicità ed efficacia nell’espressione artistica.
Nel perenne scambio tra allievo e insegnante, cosa, negli anni, ha caratterizzato il vostro equilibrio, il vostro rapporto?
Il teatro è un incontro, una relazione alla pari. Siamo legati da un rapporto professionale ma anche affettivo ormai, ci lega una prassi di lavoro costruita negli anni, un metodo di creazione artistica nel quale gli attori sono consapevoli delle modalità con le quali i contributi personali possono diventare materiale teatrale, in un processo compositivo condiviso che è la vera ricchezza di Fort Apache ed è alla base di ogni nuova produzione.
Dopo dieci anni, quali sono le speranze che ha per la compagnia e quali i progetti futuri?
Stiamo già lavorando alla nuova produzione teatrale e contemporaneamente alla stesura di un importante lavoro cinematografico. Quello che sogniamo è un teatro tutto nostro, una sede, un centro di ricerca stabile, una casa. Ci stiamo lavorando, e speriamo moltissimo che avvenga presto.
Grazie per essere stata con noi!
Grazie a voi! Vi aspettiamo a teatro!
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