Recensione: Mamma Napoli Mood
Qui la trasformazione fisica e attoriale di De Martino portano lo spettacolo ad un livello emotivo altissimo
Il teatro Tordinona è la sua Sala Strasberg all’alzarsi delle luci diventa una Piazza… dal sapore del sud, la quadratura nera viene colorata dai tanti indumenti colorati appesi come ad asciugarsi, portandoci subito alla rievocazione di Napoli. Le prime battute e le musiche tutte live eseguite dalle splendide voci dei due bravissimi attori cantanti Marco De Vincentiis e Valentina Proietto Scipioni rievocano una Napoli antica, dagli odori e dai sentimenti forti, intrisa di cultura e di umanità.
La sapiente voce di Emiliano De Martino, in veste di monologhista ci trasporta quindi nella Napoli del primo ‘900, quella di Salvatore Di Giacomo, che proprio attraverso la sua lirica racconta il viaggio di Dio e San Pietro sulla Terra, in particolare a Napoli, qui i due dopo aver visto le meraviglie di Piazza Dante, gustato una buona limonata e rallegratosi per la vista di tanta gente felici nel godersi una bella giornata di sole, si trovano ad un tratto davanti alla vera Napoli quella dove cechi, storpi, zoppi, vecchi chiedono la carità agli angoli delle strade, il Padreterno sconvolto cerca di trovare una soluzione, e porta quindi tutte queste genti in Paradiso.
Qui i nostri sventurati trovano conforto e ristoro, fino a cadere in un sonno profondo la morte. Tuttavia da questo cumulo di cadaveri, una donna, si muove forsennata in cerca di qualcosa, inizia a correre all’udire un pianto di bimbo e scappa via dal Paradiso tornando sulla Terra, in una casa di pezzenti dove stringe forte a sè il suo bimbo, e acquietandolo come solo l’amore di mamma può fare, lo fa addormentare al suo seno. Già da questo primo racconto si intuisce che il leitmotiv di tutto lo spettacolo è l’amore. Quell’amore che rompe tutte le barriere soprattutto quelle convenzionali e vince addirittura la morte.
Ancora una volta il conduttore, De Martino, che nonostante l’immobilità tipica di chi sta a leggio magistralmente riesce a vestire i panni dei personaggi dei quali parla e a darne voce e corpo ci trasporta in un’altra epoca, in un altro quadro. Ci ritroviamo nel 1944 davanti a una delle più grandi tragedie ferroviarie: quella di Balvano. A darne voce due militari: un capitano dell’esercito e un suo sottoposto Salvatore Sorrentino, personaggi dalle visioni opposte, uno umano e l’altro gelido. In pieno 2° conflitto mondiale, con la Patria divisa in due, il convoglio 8017, un treno merci, partito da Napoli e diretto a Potenza, con due locomotive a vapore, entrambi ubicate in testa, finisce la sua corsa sotto la lunghissima Galleria delle Armi.
Molti i morti, tutti “clandestini” e quindi viaggiatori di frodo, perdono la vita, tutti, asfissiati.
600 anime, 600…600…, ripetono i due cantanti in scena come un tormentone, clandestini, scappati dalle città, per mettere in salvo la vita e trovare da mangiare, barattando il poco che hanno con il cibo disponibile.
Clandestini seppelliti in delle fosse comuni e i loro oggetti bruciati, affinché di loro non vi sia più neanche il ricordo.
Al povero sottoposto tutto ciò non piace, con tutta la forza che ha, prova a ribellarsi, controbattere ma gli viene dato un comando: “… mo te a sta’ zitto mi devi solo raccontare i fatti ….” Qui ancora una volta l’autore dice la sua, manifestando il suo punto di vista, arriva quindi “l’appello” che ci riporta ai giorni d’oggi, senza però forzare la mano, ci chiede di nuovo di trovare amore e di provare amore perché é l’unica forza che porta alla salvezza, ci chiede di tendere la mano a questi “nuovi clandestini” che come i vecchi sembrano non meritare un nome, un ricordo, ancora una volta per volere del potere. E questo gioco tra potere e umanità è onnipresente durante tutto lo spettacolo. In ogni cambio scena infatti, De Martino dopo aver cambiato il costume e indossato i panni del nuovo personaggio ripete sempre lo stesso gesto: contare e disperdere soldi, rafforzando il senso del potere e della disumanità alla quale questi possono portare.
Si arriva quindi curiosi alla scoperta del penultimo personaggio: Antonio, nato morto e “storto”…. si parla quindi anche di disabilità…. E, passando da un racconto, che a tratti strappa anche un sorriso, viene narrata la vicenda di questo ragazzino affetto da tetraparesi spastica. Contrariamente alla diagnosi dei potenti “medici” stato vegetativo, Antonio vive, parla, si innamora, studia pur bloccato nel corpo di un burattino. La sua fame di vita, e l’amore di una donna, la sua nonna, gli danno la forza per combattere e realizzare i suoi più grandi sogni, diventa medico e nel dettaglio neurologo e neuropsichiatra infantile (il riferimento ad Antonio Guidi è chiaro) e infine primo ministro italiano della disabilità ma soprattutto, come lui stesso dice, egli diventa: Antonio.
Qui la trasformazione fisica e attoriale di De Martino portano lo spettacolo ad un livello emotivo altissimo.
Si arriva quindi carichi d’emozione all’ultimo personaggio “il napoletano”, quello di oggi, stereotipato portandoci quindi in quella Napoli raccontata da Gomorra, dove come lo stesso personaggio ci dice non si può fare di tutta un’erba un fascio:“io so’ stanco e fa’ sta vita addo o buono è fesso e o malamente è buon’”.
Anche qui come in altri luoghi c’è chi vuole studiare, lavorare, vivere, riscattarsi senza rimanere incastrato dentro una società intrisa di problemi e costrizioni, ed è proprio per realizzarsi che pur amando questa sua città che gli ha dato i natali e come una mamma lo ha cresciuto, che questo giovane napoletano, decide di lasciarla, di fare quest’atto d’amore, per rendere questa mamma Napoli orgogliosa di questo suo figlio.
Ma la bravura di De Martino Regista ritorna lasciando il pubblico con una grande riflessione o forse ancor di più, con una grande domanda: l’amore o il potere? Sul chiudersi delle luci ritorna infatti lui l’uomo in giacca e cravatta, gelido, inespressivo: il Dio Denaro… E poi il buio.
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