A Roma i funerali di Lina Wertmuller
L’ultimo saluto alla regista italiana per eccellenza: Lina Wertmuller
Oggi a Roma il saluto a Lina Wertmuller, donna, regista, attrice e sceneggiatrice italiana, un mito per il cinema ma anche un faro accesso, sempre, per le donne, in particolare quelle italiane. Perché donne, in Italia, che si confrontano con un mondo maschile e si rivelano all’altezza dello scontro, diciamolo chiaramente, fino a qualche anno fa, erano davvero poche e a poche è stata data la possibilità di farlo: la Wertmuller era una di queste, se non l’unica.
Il suo mondo era il cinema e forse per questo non mi stupii di incrociarla per caso, a bere un caffè con amiche dianzi ad un vecchio cinema del centro di Roma, ormai chiuso da anni. Per me, che non sempre noto le persone “famose” in giro per la grande città, non mi fu difficile capire chi era: donna minuta, sicura di sé, con i suoi inconfondibili occhiali: l’avrei riconosciuta tra mille.
Donna impegnata, intellettuale fine e regista con tanti primati, ma anche un caratteraccio, che lei stesso confessava, perché era difficile imporsi in un mondo ad appannaggio esclusivo maschile. I suoi successi sono legati anche alle sue conquiste, come la candidatura agli Oscar come prima regista donna, era il 1977, per il film “Pasqualino settebellezze”, una candidatura che ha il sapore della consapevolezza della cinematografia mondiale sul suo lavoro, sempre apprezzato. Oltre a quella il film conquistò anche la candidatura per la miglior sceneggiatura, sempre la sua, miglior attore protagonista e miglior film straniero. Consapevolezza che si concretizzerà nel 2020 con l’Oscar alla carriera, consegnatole dalle registe Greta Gerwing e Jane Campion, in un tripudio di applausi per chi, come la Wertmuller ha vissuto per l’arte e in particolare per il cinema. La motivazione dell’Academy americana cita “per il suo provocatorio scardinare con coraggio le regole politiche e sociali attraverso la sua arma preferita: la cinepresa”, motivazione che rappresenta il lavoro in toto della regista italiana.
Tantissimi gli attori che hanno lavorato con lei, Giancarlo Giannini, Marcello Mastroianni, Sofia Loren, Michele Placido, Mariangela Melato, Nino Manfredi, Elsa Martinelli, senza dimenticare i film legati ai musicarelli degli anni sessanta dove dirige la giovane Rita Pavone. Qui di firma con uno pseudonimo, George H. Brown, una moda del tempo, che non ha nascosto il suo talento. Non è un caso che quando conosce Federico Fellini la vuole come aiuto regista de La dolce vita e 8 ½.
La sua carriera comincia giovanissima, quando diciasettenne si iscrive all’accademia teatrale diretta da Pietro Sharoff. I suoi primi passi li compie a teatro, un amore che non mancherà mai di coltivare per tutta la vita, ma presto la si vede lavorare in radio e in televisione come autrice e regista. Firma come autrice anche la prima edizione di Canzonissima. Nel 1958 dirige il serial televisivo, in bianco e nero, “Il giornalino di Gian Burrasca”, dove sceglie per il protagonista maschile una giovanissima Rita Pavone, osando lì dove la TV, ma anche il mondo dello spettacolo, per tanto tempo, non ha osato. Ancora oggi sono pochi, ma direi rari, gli spettacoli che vedono donne interpretare ruoli maschili.
Tanti i temi affrontati nelle sue sceneggiature, passando da Fratello sole, sorella luna per Franco Zeffirelli del 1972, a temi sulla società moderna e famiglia come Città violenta di Sergio Sollima del 1970 o Cari genitori di Enrico Maria Salerno del 1973. Lo stesso accadrà con i suoi film, dando spazio ad ogni genere, tra questi anche un western, anche se molti parleranno dell’Italia dell’epoca, offrendo uno sguardo attento e reale sulla società, anche con un po’ di amarezza, un po’ come lo fu Io speriamo che me la cavo con Paolo Villaggio del 1992.
Ciò che ha sempre colpito sono stati anche quei quasi impronunciabili titoli che metteva ai suoi film, uno dei quali vanta il record come il più lungo: “Fatto di sangue fra due uomini per causa di una vedova. Si sospettano moventi politici” film del 1978 la cui versione lunga del titolo è “Un fatto di sangue nel comune di Siculiana fra due uomini per causa di una vedova. Si sospettano moventi politici. Amore-Morte-Shimmy. Lugano belle. Tarantelle. Tarallucci e vino.” Chissà, forse queste sue scelte erano dovute al fatto che lei aveva un lunghissimo nome, che racchiudeva tutte le origini della sua famiglia: Arcangela Felice Assunta Wertmüller von Elgg Spanol von Braueich.
Sta di fatto che ha attraversato le vie della vita senza paura. Con coraggio ha affrontato la vita professionale, fatta di sfide continue e di successi, come quella privata, non diversa da quella che vive ogni singola persona, con giornate esaltanti o nere, fatta di discussioni e incoraggiamenti, di gioie e dolori.
Tra i tanti commenti e apprezzamenti giunti da ogni parte del mondo, per la perdita di un’artista del calibro di Lina Wertmuller, è giusto scegliere le parole di sua figlia Maria Zulima pronunciate ai microfoni di Fanpage.it, mentre era al Campidoglio “Mia madre era una donna dal grande carattere ma soprattutto capace di un grande amore a tutti” e quelle di Massimo Wertmuller, suo nipote, lasciate sul suo profilo social di Facebook, che l’ha vissuta nei suoi due ambiti naturali, quello professionale conosciuto a moltissimi e quello privato, noto agli intimi: “L’Italia sta perdendo ultimamente riferimenti fondamentali. Portatori di qualità, del meglio, di intelligenza, di arte e di cultura. E sappiamo quanto oggi servirebbero la cultura, come ancora unico mezzo per crescere, per evolversi, per emanciparsi, e gli intellettuali, come appunto veicolatori di pensiero e cultura. Quanto servirebbero in questo sciagurato paese, il paese delle Belle Arti e del Rinascimento, con così tanti italiani invece distratti, anzi attratti da un centro commerciale, o da una vicenda del Grande Fratello, o dalle parole di un inflencer, e per niente da un capolavoro cinematografico. E difatti quando se ne va un Pasolini, uno Scola, un Monicelli, un Magni, un Proietti, un Falqui, o una Lina, ti dispiace e ti preoccupi di tutto il mondo che se ne va con loro. Tutto il loro mondo che avevano creato, a migliorare la vita di tutti, e che dal giorno dopo si deve cercare di conservare e preservare. Però, però, io oggi non piango la maestra, la genia, che se ne è andata. Soffro, soffrirò con tutti, il vuoto incolmabile che lei lascia, ma io piango un fatto mio personale e intimo. Io piango l’ultima rappresentante consanguinea della vita che ho avuto sin qui, l’ultima superstite del mio passato, anche remoto. Io piango i ricordi familiari che mi hanno legato a lei da bambino. Io piango la sorella di mio padre. A lei non piaceva che la chiamassi così, ma io, prima di tutto, piango mia zia”.
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