Daniela Marazita ci parla di Nel cuore del falco
Carcere, rieducazione, pentimento nel racconto teatrale di Nel cuore del falco
Possono un detenuto o una detenuta pentirsi sul serio e cambiare la propria vita? E questa vita può rimettere in moto una nuova esperienza di dialogo con gli altri, con chi sta all’esterno del carcere, in cui il detenuto/a ha scontato la sua pena?
Questo è un tema dibattuto da sempre, su cui si sono scritti libri, trattati, si sono accese discussioni e si è attivato il lavoro di chi, tra legislatore e legge, pone al centro delle carceri, il lavoro per cambiare le persone che hanno sbagliato. Un impegno per arrivare a risultati che prevedono, dopo aver scontato la propria pena, il reinserimento all’interno della società.
Una discussione che vede l’attivazione di progetti che toccano le corde della sensibilità e delle emozioni, capaci di far scattare la voglia di cambiamento e portare verso il sentimento di pentimento. Un po’ come quello che è accaduto all’ex camorrista Cosimo Rega che per i suoi crimini è stato condannato all’ergastolo e che oggi è libero per sentenza del tribunale di Roma. Accanto a lui sua moglie Gelsomina che non lo ha mai lasciato.
Nel cuore del falco (il rimorso cambia forma ogni volta che lo spirito si eleva), è la mise en espace dell’atto unico di Daniela Marazita e Cosimo Rega, diretto e interpretato da Daniela Marazita nel ruolo di Gelsomina e da Vincenzo Del Prete in quello di Cosimo/Sumino. Ne parliamo insieme alla protagonista e regista Daniela Marazita.
Il tema delle carceri e del lavoro che è possibile fare con detenute e detenuti per l’accettazione del proprio errore e del rimorso, come modalità per rientrare poi nella società, riempie di dibattiti la politica e la società. Come vivono i detenuti tutto questo?
È difficile rispondere ignorando le condizioni in cui versa la popolazione detenuta e tutti coloro che operano nelle carceri italiane (agenti, personale amministrativo, funzionari pedagogici) afflitte da numerosi problemi, prima fra tutti il sovraffollamento e la strage di suicidi che ha raggiunto numeri insopportabili. L’articolo 27 della nostra costituzione parla chiaro: “…le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato“. Ai detenuti più “fortunati” sono riservate attività trattamentali volte all’attuazione del dettato costituzionale e tra queste numerose sono legate alla pratica teatrale. La fortuna risiede nell’essere ristretti in un istituto penitenziario in condizioni che consentano la pratica delle suddette attività. La mia esclusiva esperienza ultradecennale di teatrante nel carcere di Rebibbia nuovo complesso si è valsa in buona parte della collaborazione con una importante associazione di professionisti del teatro, il Centro Studi Enrico Maria Salerno, che ha potuto realizzare non pochi progetti nel bellissimo teatro del carcere. Fondamentale all’epoca la direzione illuminata del dottor Carmelo Cantone (attualmente vicecapo del DAP) il quale, per il ruolo rivestito, aveva la discrezione di valutare e approvare progetti provenienti dal mondo esterno.
Quindi sono testimone che i detenuti impegnati in tutti i progetti teatrali e non solo (personalmente ho anche condotto con successo un laboratorio di scrittura drammaturgica in una sezione particolarmente difficile, quella dei precauzionali) hanno potuto sperimentare cambiamenti profondi e duraturi tali, in molti casi, da incidere sulla riduzione drastica della recidiva tra coloro che, scontata la pena, non hanno reiterato condotte criminali. Inoltre molti degli ex detenuti con i quali ho collaborato svolgono oggi attività lavorative legate al teatro e molti anche in altri ambiti.
Lei ha lavorato all’interno delle carceri, a contatto con persone che si ritrovano a confrontarsi con gli altri e con loro stessi, un po’ come il fine del teatro stesso. Quanta importanza ha l’arte all’interno della società carceraria e della società in generale?
Quando viene proposto per la prima volta un laboratorio teatrale in carcere non si è mai certi di quali siano i reali motivi di chi fa richiesta di partecipare. Spesso la prima motivazione è una comprensibile occasione di svago, di uscire dalla cella e affrontare un’esperienza non ben definita. La sorpresa di ciò che riserva la sperimentazione del gioco teatrale è un’esperienza stimolante per noi operatori e per gli aspiranti attori. Il gesto creativo costringe ad esercizi di immedesimazione, spostamento del punto di vista, approfondimento del contesto in cui la storia che si vuole raccontare avviene etc….
Il teatro in carcere libera, se pur momentaneamente, il detenuto dalla sua condizione, allontana il pregiudizio e per sua natura, non può prescindere dall’altro che è il pubblico. Il teatro si fa in due e contemporaneamente da questa esperienza comincia una avventura dagli esiti spesso sorprendenti.
Lo spettacolo che porta in scena e che ha scritto con Cosimo Rega, da che cosa è scaturito? Ogni spettacolo ha una funzione, un fine, qual è quello di Nel cuore del falco?
Ho conosciuto Cosimo Rega nel reparto dell’alta sicurezza di Rebibbia, eravamo entrambi impegnati come attori nell’allestimento di un Amleto contemporaneo, lui era il re Claudio ed io la regina Gertrude. Abbiamo maturato nel tempo un rapporto di amicizia e stima reciproche, abbiamo realizzato altri progetti quando è potuto uscire dal carcere in regime di semilibertà fino a pensare di dedicarci alla scrittura di un testo che potesse raccontare quanto sia stato importante per lui lo studio dei grandi della letteratura quali per esempio Dante e quanto il teatro fosse lo strumento più straordinario per questo racconto, quale ruolo ha avuto il rapporto d’amore e sostegno con la donna della sua vita, quanto la Divina Commedia abbia accompagnato i suoi anni più bui fino ad accettare l’aiuto di invocare l’incontro con Dio in quel Paradiso che attende Dante come ultima tappa del suo viaggio.
Va detto che l’idea è stata caparbiamente di Cosimo, convinto che i giovani devono essere i primi destinatari di questo tipo di messaggio e cioè che la cultura della legalità si costruisce ostinatamente e giorno per giorno e che la sua esperienza di ex camorrista andava raccontata come monito, auspicando un contributo diretto ad incrementare una coscienza civile sulla base del racconto vero di un uomo che riconosciuti i suoi errori riesce a convivere con il rimorso che “cambia forma ogni volta che lo spirito si eleva”.
Quali sono gli aspetti dei protagonisti che ha messo in evidenza? Quanto si è attenuta alla realtà?
La pièce affronta il tema dell’identità che si frantuma per un evento traumatico e reiterato (la condotta criminale che porta inesorabilmente alla galera) nella vita di un giovane uomo che tenta disperatamente di ricomporsi e sopravvivere alla catastrofe che ne è stata la conseguenza. Ogni pensiero espresso drammaturgicamente è frutto di percorsi realmente vissuti e rivissuti, ruminati e metabolizzati, memorizzati al punto da illuminare quel labirinto che altro non è che la vita stessa.
Raccontare Gelsomina, la moglie di Cosimo/Sumino e madre dei suoi due figli è stato particolarmente emozionante. Una donna dal cuore forte, intriso di fede in Dio e nella famiglia, la cui voce sottile e potente si impone nella rappresentazione dei loro pensieri in una delle infinite notti in cui sono lontani solo fisicamente. Determinata e semplice Gelsomina è la solida struttura che consente il procedere della vita, il senso profondo dell’amore che non si insegna ma che alla fine di un difficile cammino si deve guardare con la stessa devozione che si deve ai miracoli.
Cosa le ha dato questa esperienza? Ha cambiato o meno, il suo modo di affrontare la vita? E il lavoro?
Faccio l’attrice da circa quarant’anni e questa è la mia passione. Il fatto che, anno dopo anno, abbia scelto di passarne circa dodici a fare teatro a Rebibbia e continuare anche fuori a tentare di raccontare questo mondo parallelo che abita comunque dentro la nostra società è la risposta che do al mio bisogno di conoscere, al mio amore per il teatro inteso come ricerca, strumento di conoscenza dell’altro e delle storie del mondo e delle miserie quanto delle contraddizioni che accompagnano le vite di ogni essere umano.
Detto ciò, vi aspetto all’Arena di Tor Bella Monaca lunedì 8 agosto alle 21.00!
Grazie per essere stata con noi!
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