Daniele Parisi in Io per te come un paracarro

L’ironico Daniele Parisi ci racconta del suo teatro

Daniele Parisi sarà di nuovo in scena a Roma al Teatro Tor Bella Monaca dal 21 al 25 febbraio, con lo spettacolo Io per te come un paracarro, da lui scritto, diretto e interpretato. Un racconto che mette a nudo le anime dei personaggi, tutti interpretati dallo stesso Daniele. Con lui abbiamo parlato dello spettacolo, di teatro, di emozioni e con la solita semplicità ed ironia, Daniele ci ha fatto entrare nel magico mondo attoriale, quello per il quale vive.

Bentornato sulle nostre pagine. Il tuo prossimo spettacolo in programma è Io per te come un paracarro. Com’è nato questo spettacolo?

Mi sento male se ci penso. Una roba simile alle coliche renali. Ogni volta è un dramma e più passano gli anni più la faccenda peggiora. Allora… questo spettacolo, come gli altri del resto, è nato in sala prove. Solitamente faccio così: scrivo, provo e faccio la regia in contemporanea. Lo spettacolo cresce lentamente. Nel frattempo, durante le prove, mi protesto, litigo e mi scuso con me stesso: vista da fuori non è una bella situazione. Sono state prove lunghe ed estenuanti, una gestazione lunga due anni. Molti erano preoccupati: uscivo poco la sera, dormivo male. Un inferno.

Nel racconto che fai sul palco, una coppia di giovani in attesa di un figlio, decidono di partire per ricercare un luogo migliore. Come vivono il viaggio?

La povertà è uno delle questioni principali in questo spettacolo. Questa coppia deve trovarsi da mangiare, cercare ospitalità: viaggiano perciò affamati, stanchi e poco lucidi. Dormono male anche loro. Non gli ho regalato neanche un giorno di tregua, anche perché non mi sembrava giusto. Non posso essere solo io quello che non dorme. Soffrissero l’insonnia anche loro. E poi c’è il problema del camminare. L’avanzamento verso una meta sconosciuta diventa metafora di chi vuole lasciarsi alle spalle, mettere in discussione, la propria visione del mondo senza sapere bene, in realtà, neanche cosa cercare. Dei due personaggi, sicuramente, l’uomo è quello che meno è in grado di tenere in mano la bussola. D’altronde, questo tipo che racconto, non ha gli strumenti per approcciarsi alla vita, figuriamoci per fare il padre.

Tanti sono i personaggi che incontrano lungo il cammino, cosa rappresentano?

Sono paure che diventano mostri veri e propri. Nel momento del bisogno si ha paura di non trovare cibo, un tetto sopra la testa, di essere derubati o raggirati da chi sta messo pure peggio di te. Mi sono divertito a costruire prima una struttura drammaturgica che seguisse lo schema classico della tragedia, per poi sovvertirla, parodiarla. Il personaggio della Maga, ad esempio, che dovrebbe in teoria instradare i nostri eroi, si rifiuta di aiutarli perché non riesce a dir loro la verità. Le sembra troppo pesante come cosa. La mia Maga però fa anche la commercialista come secondo lavoro: non è un caso. La questione dei soldi è molto presente e pressante nello spettacolo. I nonni del personaggio maschile vendono i propri organi per pagarsi sfizi che altrimenti non potrebbero permettersi. Mi sembra abbastanza chiaro da cosa fuggono i nostri eroi.

Il viaggio, le vicissitudini che coinvolgono i personaggi, sono tutti interpretati da te, da solo sul palco. Quali sono le sensazioni che provi calcando le assi di un palco, in questo caso in solitudine?

Il primo spettacolo che ho messo in scena si intitolava ABBASSO DANIELE PARISI. Era il 2011. Più che uno spettacolo era una dichiarazione di intenti: cioè quella di lasciarmi in camerino. Chiudermi dentro fino alla fine dello spettacolo. Nascondermi da qualche parte e uscire solo alla fine. Io mi prendo gli applausi ma in scena non entro mai, io mi vergogno troppo. Non scherziamo. Non ce la farei mai a parlare davanti a tutta quella gente. E poi io non ho davvero niente da dire. In più, cosa ancora più grave, mi contraddico di continuo. Non sono attendibile. Per questo faccio parlare al posto mio persone che siano in grado di portare avanti – nella storia che si racconta quella sera – i propri intenti: in teatro si direbbe “azione” o “progetto”. Insomma ci siamo capiti.

Di questo spettacolo ne sei autore e interprete, cosa chiede l’autore all’interprete e viceversa?

Come dicevo prima, si discute molto. E poi in tre si lavora male, è risaputo. Perché faccio anche la regia, in realtà. Attore, regista e autore nella stessa stanza: durante le prove la rissa è garantita. Perciò diciamo le cose come stanno una volta per tutte. L’autore qui è quello che viene più di tutti ostacolato. Viene considerato dagli altri due quello meno importante. Quando prova a scrivere qualcosa di più profondo, lo sai cosa succede? Gli altri due ridono, sghignazzano! Capisci? O peggio… l’attore non impara a memoria le battute e il regista le taglia. Parole buttate al vento. Anche se a volte è un bene, perché molte, in questo spettacolo, erano davvero brutte (qui è l’attore che parla però). Non è vero, incompetente! (Adesso è l’autore). Ti rendi conto come sono messo? (Ha risposto il regista, adesso).

Cosa rappresenta per te Io per te come un paracarro?

Il Paracarro serve a delimitare una zona. A vederlo dal vivo un paracarro – se ne vedono diversi a Roma soprattutto nel centro storico – mi ha fatto sempre molto ridere. Perché in realtà si tratta di un pezzo di pietra conficcato nella strada, fermo, immobile, granitico. Non si muove.  È lì che, insieme ad altri come lui, prova a delimitare una zona che concretamente può essere valicata senza problemi. È più l’illusione di una recinzione. È l’idea di proteggere qualcosa senza farlo davvero: è quello che fa il protagonista maschile di questo spettacolo. Si illude di proteggere qualcosa senza riuscire a farlo realmente.

E invece, cosa rappresenta il teatro per Daniele?

Raccontare storie, punto. Ti aspettavi qualcosa di più profondo, lo so. Ma alla fine è questo. Lo faccio però dando voce a umanità lontane da me e con cui forse non andrei neanche molto d’accordo nella vita reale. Interpreto cose molte diverse: bambini, donne, animali, mostriciattoli, ammalati, spacconi, anziani. In uno spettacolo, AB HOC ET AB HAC del 2013, ero un’ambulanza che trascinava il pubblico dentro un ospedale immaginario. Sono stato un microcefalo che si lamentava perché nessuno lo lasciava in pace. Ho interpretato anche diverse donne anziane, inventato patologie inesistenti. Sono stato un calzino, un Re dimenticato dalla storia, un bambino a cui prendono il pallone. È la possibilità di uscire fuori da sé.

Cosa hai dato e continui a dare al teatro e cosa dà lui a te?

Prima di tutto i soldi per vivere. È aumentato tutto, è un disastro. Devo dire che il teatro mi ha regalato una cervicale e due protrusioni alla schiena che adesso a 41 anni cominciano a farsi sentire. Salto ininterrottamente da più di vent’anni: devo darmi una calmata. Il mio fisioterapista è diventato il mio consulente alla drammaturgia: discutiamo le prossime produzioni in base alla mia condizione fisica. Una volta però il teatro mi ha prestato dei chiodi e un trapano per fissare una cantinella ma ho restituito tutto, giuro.

Prima di salutarci, ci lasci con un pensiero, una frase che possa accompagnarci nel mondo del teatro?

Eduardo diceva che a teatro aveva conosciuto il freddo. Il freddo delle sale prove, degli scantinati. Confermo tutto. Mi sento di dire però che il segreto non è la stufetta, ma la calzamaglia. Doppia se possibile. Che fa anche un po’ teatro Shakespeariano.

Grazie per essere stato con noi!

Grazie a voi per avermi invitato. Vediamoci presto, perché vuol dire che ho finito lo spettacolo nuovo, ho iniziato le prove da qualche mese e già non ce la faccio più.

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Sissi Corrado

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