Emanuele Baroni e il sogno di una fata
Alla fine dell’arcobaleno, un bar, la sua vita e una fata
Il 6 settembre alle 21.30 all’interno del Festival Teatrale Teatramm’, presso il Teatro Marconi di Roma, lo spettacolo Alla fine dell’Arcobaleno, di Emanuele Baroni, autore, regista, luci, scenografia, costumi. In scena Piergiorgio Bianco, Giovanni Giannetti, Roberto Pompili, Claudio Tamburrino, Angelo Tarquini, Federica Baroncini, Carola Crialesi, Federica Di Sotto, Sanja Jelena Gargano, Angelica Leone, Caterina Leone, Claudia Vernini, organizzazione Compagnia l’Anima conta.
Un racconto che si svolge all’interno di un bar, luogo in cui si incontrano molte persone, un luogo comune che evidenzia stesse sedie e tavoli, stessi clienti, stessi sogni. Fino a quando arriva un Noah, una fata. Abbiamo parlato dello spettacolo insieme a Emanuele Baroni.
Lo spettacolo che portate in scena è Alla fine dell’Arcobaleno, in Irlanda vi erano gli gnomi con il loro carico d’oro, cosa abbiamo, invece, qui, nella provincia di Roma?
In Irlanda il Leprecauno nasconde e sotterra il suo tesoro. La leggenda vuole che quando in cielo appare l’arcobaleno, sotto una delle sue basi, sia sepolto il tesoro dello gnomo. Qui, nella provincia di Roma, quando appare un arcobaleno, che io sappia, non vi è una leggenda o un’usanza che ci suggerisca cosa fare. Abbiamo però il Lenghelo o Lengheletto: un folletto dispettoso ma non malvagio che disturba con scherzi chi non gli va a genio. In conclusione penso che le pentole d’oro, il carico d’oro degli gnomi, siano proprio i bar e i pub della provincia: che da una parte possono distoglierci dalla bellezza di quello che c’è fuori e dall’altra ci mettono nella condizione migliore per apprezzare l’arcobaleno.
Cosa ti ha ispirato la scrittura di questa drammaturgia?
Un mio amico barista, qualche tempo fa, ogni volta che entravo nel locale esordiva con “Oh, ma che vieni dalla fine dell’arcobaleno?”. Faceva riferimento a una barbetta che rimandava a quella dei Leprecauni e degli gnomi irlandesi. Il titolo dello spettacolo ha sicuramente a che vedere con questo mentre tutto quello che cerca di sviscerare la drammaturgia riguarda il motivo per il quale mi ostinassi a portare quella barbetta.
La location è un bar normalissimo, con baristi e avventori, fino a quando arriva Noah. Chi è o cosa rappresenta la ragazza?
Credo rappresenti la magia, nel senso più stretto, ma soprattutto la possibilità improvvisa di cambiamento e crescita che dobbiamo essere in grado di intercettare e che allo stesso tempo dobbiamo essere in grado di accogliere. Senza accoglienza e fede, non in senso religioso, siamo un po’ persi come uomini e rischiamo di finire imbottigliati nei più comuni vizi e nelle più cocenti delusioni. Noah è lo sforzo necessario per sentire un po’ meno la fatica d’essere uomini, è una fata, e nella vita a chi non è capitato di incontrare una fata?
Nello spettacolo, nonostante lei cerchi di aiutare tutti, viene considerata una mente malata. Cosa la differenzia dalle altre persone?
Una profonda umanità. Un profondo desiderio d’amore che la muove verso l’altro. Il bisogno, mai dichiarato, di continuare a nutrire sé stessa e gli altri attraverso sé stessa e l’altro. Un istinto umano e animale che spesso dimentichiamo di avere. La pace interiore che non è mai totale e assoluta.
Cosa hai chiesto agli attori a livello registico?
Ho chiesto di portare il centro dei personaggi verso di loro, di avvicinarli a sé o a quello che per loro rappresentavano. Ho chiesto di continuare a provare, anche lontani dalla sala, facendosi sorprendere da quello che continua a uscire da dialoghi e monologhi. Gli ho chiesto pazienza, fiducia e responsabilità che si trovano solo attraverso il loro contrario.
Grazie per essere stato con noi!
Grazie a voi e a presto!
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