Francesca Miranda Rossi racconta Dopo la bora
La vincitrice de L’Artigogolo 2024 parla del suo testo drammaturgico ispirato alla rivoluzione della psichiatria italiana
La nuova drammaturgia italiana, molto spesso sottovalutata per mancanza di sostentamento economico, gode di pochi eventi che la possano mettere in scena o anche solo permetterle di essere letta e conosciuta. Uno degli eventi che riscuote ogni anno, sempre maggiori attenzioni è il Concorso L’Artigogolo organizzato ogni anno da Cecilia Bernabei e Angela Telesca, che, attraverso il concorso, premia con la pubblicazione, nella collana Le Nebulose della ChiPièNeArt Edizioni, il testo vincitore.
Dopo la bora è il testo vincitore del Concorso di drammaturgia contemporanea L’Artigogolo. Il testo è stato scritto dalla giovane scrittrice Francesca Miranda Rossi. Con lei ho cercato di comprendere la scelta e le tematiche del testo che scritto proprio per il teatro.
Benvenuta. Con il testo Dopo la bora, lei è la vincitrice de L’Artigogolo 2024, cosa ha rappresentato questo riconoscimento per lei? A chi dedica la sua vittoria?
Beh, sapere che il proprio testo arriva al pubblico, che è apprezzato, capito, è sempre ovviamente una grande soddisfazione. È il punto di scrivere, naturalmente. E proprio per questo, perché il punto è far arrivare quello che si vuole raccontare a più persone possibile, la possibilità di accedere a una pubblicazione è straordinaria!
Sulle dediche non sono molto brava. Credo che se dovesse essere dedicato a qualcuno, questa vittoria e questo testo in generale, è alle persone che sono al centro di questa storia. Per scriverla ho letto e ascoltato tantissime storie: di pazienti, di infermieri, di medici, di familiari. Penso che Dopo la bora sia dedicato a loro. E poi, a tutte quelle e tutti quelli che in vario modo oggi portano avanti le idee di Basaglia e dei suoi colleghi.
Si aspettava la vittoria del suo testo drammaturgico? Qual è il punto di forza della drammaturgia?
Non saprei, questa domanda sarebbe da fare a chi lo ha scelto! Secondo me potrebbero essere due. Uno forse è l’angolo da cui guardo le cose per parlare di questo tema, cioè di manicomi e salute mentale. O forse possiamo dire il tono? Per me, Dopo la bora è un po’ una fiaba. Ha una sua leggerezza. Alla premiazione qualcuno ha citato la leggerezza calviniana, la “leggerezza che non è superficialità”. Oddio, il paragone mi sembra anche troppo, ma certamente Calvino è uno dei miei grandi modelli come autrice.
Il secondo elemento, che è secondo me sia il rischio che il punto di forza del testo, è la sua struttura drammaturgica. È una struttura che prova a rompere la linearità della narrazione creando un testo frammentato, un po’ da ricostruire come un puzzle per lo spettatore. Questo può essere rischioso, può non funzionare, può essere eccessivamente complicato. Sono molto felice invece che sia arrivato come un punto di forza del lavoro!
Il testo drammaturgico Dopo la bora, racconta della chiusura dell’ospedale psichiatrico di Trieste grazie al dottor Franco Basaglia. Com’è venuta in contatto con la storia dell’ospedale?
L’incontro con la storia di Basaglia a Trieste è avvenuto per caso, durante un laboratorio teatrale quando avevo circa vent’anni. Partecipavo a un laboratorio di teatro interculturale, un’esperienza intensiva, di tre-quattro giorni, che tutti gli anni aveva un tema diverso. Un anno il tema scelto fu proprio la storia di Basaglia a Trieste e la figura di Marco Cavallo, il cavallo di cartapesta che divenne simbolo delle lotte per la chiusura degli ospedali psichiatrici. La storia mi ha risuonato immediatamente.
All’epoca non avevo idea di cosa ci trovassi veramente di interessante, l’ho capito col tempo cos’era che davvero mi legava a quella storia, cosa ci trovavo di così straordinario e urgente. E credo che la risposta principale è che una storia di utopia che diventa concreta. La storia di un sogno rivoluzionario talmente folle da parere impossibile. Addirittura: inimmaginabile. E invece quel sogno non solo è stato immaginato, ma è diventato realtà.
Il dottor Basaglia, nel suo campo, ha rivoluzionato il mondo della psichiatria italiana: un lavoro che ha cambiato la vita di pazienti, infermieri e dottori. Cosa ha rappresentato per gli altri, per chi stava fuori?
Credo che la risposta a questa domanda si leghi alla precedente. Dice Basaglia in un’intervista, parlando del significato della sua rivoluzione: “La cosa importante è che abbiamo dimostrato che l’impossibile diventa possibile. Dieci, quindici, vent’anni fa era impensabile che un manicomio potesse essere distrutto. Magari i manicomi torneranno a essere chiusi e più chiusi di prima, io non lo so, ma a ogni modo noi abbiamo dimostrato che si può assistere la persona folle in un altro modo […]” Questo penso sia il grande lascito di Basaglia. Il punto importante è questo: è che ora si sa cosa si può fare.
Naturalmente però non è stato un processo facile, anzi, è stato colmo di contraddizioni; e quindi molto difficile da accogliere per chi stava fuori. Reintegrare i malati all’interno della società civile significa capire come riallacciare i rapporti con le famiglie, significa immaginare strumenti alternativi di supporto alla malattia mentale che non abbiano a che fare con la reclusione. Significa combattere lo stigma e pensare alla cura in modo nuovo, più umano. Significa investire dei soldi, molti soldi; per costruire un’alternativa vera alla reclusione.
Questo era il progetto di Basaglia. Ma i soldi raramente sono stati investiti, i servizi alternativi all’ospedale psichiatrico non sono stati avviati, i malati e le famiglie sono stati abbandonati a loro stessi; e questo ha aumentato il dissenso di una parte della società civile.
In Dopo la bora, tutti i personaggi restano sempre sul palco, da cosa deriva questa scelta drammaturgica? Ci sono anche le Babe, chi sono? Che cosa rappresentano?
Per raccontare tutte le sfaccettature e le contraddizioni di un processo come quello della rivoluzione basagliana, ho scelto di affrontarla da diversi punti di vista. Per questo nello spettacolo convivono diverse narrative, che rappresentano tre occhi diversi sulla questione. Da un lato la storia di due pazienti, Tinta e Giovanni. Dall’altro la storia del familiare di un paziente, Antonia. E poi la storia di tre persone qualsiasi, tre donne triestine che nulla hanno a che fare con l’ospedale psichiatrico ma si trovano la città progressivamente invasa dai matti che finora erano stati reclusi in manicomio lontani dai loro sguardi.
Queste prospettive, procedono parallele. Ognuna ha vita propria, ognuna ha le proprie ragioni. Per questo coesistono sul palco; così come davvero hanno coesistito nella vita e nel dibattito pubblico.
Esiste un gioco di rimandi continuo tra i due piani (il dentro e il fuori dal manicomio); e più il testo procede più i piani si intrecciano e si contaminano. Quello che mi interessava era assottigliare progressivamente la linea tra i due mondi, quello dei matti e quello dei sani. I personaggi che dovrebbero essere normali appaiono, nel testo, molto più matti dei matti. Era questo che mi piaceva porre al centro dell’attenzione: esiste davvero una linea di demarcazione netta tra ciò che è considerato normale e ciò che non lo è?
Nello spettacolo ci sono pazienti e familiari. Come vivevano all’epoca il loro rapporto? E oggi, a distanza di anni, come vivono lo stare fuori?
Non è una domanda semplice, e forse non è nemmeno giusto che parli io al posto loro. Quello che so lo so perché ho letto e ascoltato moltissime storie, sia di pazienti che di familiari di ieri e di oggi. Quello che risulta più chiaramente è che il rapporto con la malattia, con la cura, con l’istituzione manicomiale è un rapporto estremamente individuale. Ognuno vive questa esperienza a modo proprio; ed è giusto dar voce alle storie di ognuno.
Questo in fondo è quello che volevano fare Basaglia e i suoi colleghi, è questo il centro della rivoluzione basagliana: considerare i pazienti non più come malati ma come uomini. Non liste di sintomi da etichettare ma soggetti autonomi, ciascuno e ciascuna con i propri vissuti, i propri bisogni, i propri desideri. Come chiunque altro.
Lo spettacolo è andato già in scena a Roma, presso Fortezza Est, un teatro che apre molto alla sperimentazione. Quali sono stati i riscontri che ha avuto lo spettacolo?
Lo spettacolo ha avuto possibilità di fare qualche data sia a Roma che altrove, in diverse forme (spettacolo vero e proprio, riduzione, lettura scenica). L’incontro con il pubblico è stato sempre molto positivo. È un tema che interessa tante e tanti, e di cui però si parla poco ultimamente. È stato evidentissima la diversa reazione generazionale al lavoro.
Chi nel 1978 c’era, e si ricorda bene di cosa abbia significato per l’Italia la legge 180, ha sempre commentato stupito: ma come mai voi, una compagnia giovanissima, parlate di questi argomenti? Come avete fatto a venirci in contatto? I più giovani invece quasi sempre ci dicono che di questa storia non sapevano quasi niente. Si parla tanto di salute mentale, ultimamente, ma alcuni pezzi fondamentali della storia della psichiatria nel nostro paese sono quasi dimenticati.
L’esperienza più bella di incontro con il pubblico, però, è stato in occasione di un festival interamente dedicato al tema della salute mentale, InSania Fest a Cori, in provincia di Latina, dove ho presentato un breve estratto del testo. È stata un’esperienza meravigliosa. Ho sentito che lì, finalmente, Dopo la bora trovava tutto il suo senso.
InSania è un festival interessantissimo. Completamente autorganizzato da collettivi e associazioni del territorio, a partire dall’idea di un paziente, affronta il tema della salute mentale esattamente come lo affrontava Basaglia: come una questione non solo medica ma innanzitutto politica. E di conseguenza sociale, relazionale, esistenziale. Sono queste le realtà che portano avanti l’eredità di Basaglia oggi.
Cosa spera per il futuro di Dopo la bora?
Mi piacerebbe che ci fossero più esperienze di questo tipo nel futuro di Dopo la bora. Uscire dai teatri, dalle sale, per andare a incontrare i luoghi e le persone che si occupano di salute mentale oggi. E far incontrare a loro Dopo la bora; in un processo di scambio reciproco.
Cosa pensa, invece, della nuova drammaturgia italiana?
Quando si parla di artisti, mi piace poco parlare in generale. C’è nuova drammaturgia italiana che mi piace, e nuova drammaturgia italiana che non mi piace affatto. E grazie a dio! Quello che secondo me ha senso dire, come discorso di sistema, è che di nuova drammaturgia italiana ce n’è poca. E questo non perché gli autori non ci sono, ma perché il sistema teatrale italiano non favorisce affatto la nuova drammaturgia. Esistono pochissime occasioni per gli autori di elaborare i propri progetti accompagnati da un sostegno economico; i teatri non investono su autrici e autori; non li conoscono nemmeno, molto spesso.
Si sta dedicando ad altri testi? Se sì, ci accenna qualcosa?
Per quanto riguarda la seconda domanda sì, ho una mia compagnia, Le TSC che sta per Tutto Sotto Controllo, un nome ironico, naturalmente! A fine ottobre ha debuttato il nostro ultimo spettacolo, prodotto da Fondazione Solares-Teatro delle Briciole. Si intitola Terra! È uno spettacolo di teatro per ragazzi dai 6 anni in su, e ha avuto un ottimo riscontro di pubblico.
Con le TSC abbiamo già iniziato a lavorare a nuovi progetti, mantenendo il focus sul lavoro per infanzia e adolescenza. In cantiere c’è un nuovo spettacolo per le scuole elementari, attorno ai temi del tempo, della morte e dell’identità personale; e poi il progetto di uno spettacolo per le scuole superiori, un adattamento dell’Eneide in chiave contemporanea in cui Enea è, esattamente come nel poema originale, un profugo di guerra mediorientale che tenta di arrivare in Italia.
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