I 50 anni del quotidiano “Il Manifesto”

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“Un operaio conosce 100 parole, il padrone 1000. Per questo lui è il padrone” (don Milani)

“Possiamo provare a costruire una risposta” cosi conclude l’articolo di “buon compleanno”, per il cinquantenario del quotidiano comunista “il Manifesto”, Rino Formica, l’ultimo grande vecchio del socialismo italiano. Una risposta qualsiasi? No una risposta il cui orizzonte sia il “socialismo”.

Era il 28 aprile 1971, anche allora era un mercoledì, ma a differenza di oggi era una luminosa e calda giornata di primavera… altre poi sarebbero state nel corso dei decenni successivi, le primavere, da quella dei garofani a quella araba…ma quella primavera del 1971 ci ha segnati, mi ha segnato. Io che mai sono stato comunista, non accettai da sessantottino libertario, l’invasione di Praga, un’altra primavera di una città che fu lasciata sola: “Praga è sola” titolò la Rivista del Manifesto tre anni prima dell’uscita del quotidiano. 

Quel mercoledì mattina passai all’edicola dell’Eur e acquistai cinquanta copie del giornale.

Allora abitavo a Spinaceto, quartiere “residenziale popolare” di nuova costruzione a sud di Roma oltre il GRA. Sette complessi edilizi, si chiamavano lotti, alti dodici piani (una barriera a quel famoso ponentino romano cantato da Pascarella

 «Che dilizia! Senti quer venterello
salato, quer freschetto fino fino
dell’onne, che le move er ponentino,
che pare stiano a fa’ a nisconnerello!»)

costruiti con il finanziamento per l’edilizia popolare, in cui andarono ad abitare, provenendo da varie parti di Roma, nuclei famigliari di operai, impiegati statali, molti erano poliziotti e insegnanti come mio padre) insieme ad un nucleo rom, da sempre apostrofati come “lì dove abitano gli zingari”.

Culture e provenienze diverse molti romani, molti emigrati tra gli anni 50 e 60 a Roma al seguito del grande boom economico ed edilizio.

Con quelle 50 copie del giornale girai tutti i cantieri edili della zona. Loro erano gli operai e manovali, io lo studente borghese sessantottino. Per loro, maggioranza PCI, alcuni del servizio d’ordine nelle manifestazioni comuniste, rappresentavo la voce dei traditori, i compagni espulsi dal partito, Pintor, Natoli, Rossanda, Magri, Parlato. Per il compagno di base quel gruppetto minoritario che si raccoglieva intorno alla Rivista Il Manifesto erano dei “frazionisti” e il comitato Centrale del Pci ne sanzionò la radiazione dal partito…. in Russia forse li avrebbero spediti in  qualche gulag siberiano. Per fortuna eravamo in Italia e il Pci non era il Pcus…

Quella mattina la diffusione del giornale fu una fatica, grandi discussioni anche teoriche…chi pensa che l’operaio o il manovale siano ignoranti, allora la loro formazione era il frutto maturato nelle sezioni o nelle scuole di partito (le Frattocchie un monastero laico!). Ma tanta umanità fra compagni. Alla fine le 50 copie furono tutte vendute. Il giornale di quattro pagine costava 50 lire.

Per cinquant’anni il mio rapporto con il Manifesto è stato di “amore e odio” non sempre, ero pur sempre un socialista, ero d’accordo con quello che scriveva, ma sicuramente per me è stata una scuola di scrittura e di formazione.

Poi ci fu una esperienza diretta quando fu costituita la Cooperativa editrice del Manifesto Anni 80, ne diventai azionista e mi offrii di lavorarvi come volontario: uscivo dall’Ufficio Italiano dei Cambi (ora Banca d’Italia), dove allora lavoravo, e andavo a via Ripetta, sede della Cooperativa, proprio davanti al liceo artistico. Il mio amico Tommaso Di Francesco, oggi vicedirettore del quotidiano, mi disse “benvenuto compagno c’è da imbustare e portare le lettere alla posta per la spedizione” …perfetta sintesi di lavoro manuale e intellettuale.

Il lavoro della Cooperativa, che era un tutt’uno con la redazione del giornale in via Tomacelli al quinto piano, sviluppò interessanti iniziative dagli incontri politici alla pubblicazione di libri, a quella della Rivista Antigone che si interessava dei problemi della giustizia e delle carceri. Venni incaricato di seguire la sezione abbonamenti e diffusioni…un avanzamento di “carriera politica”. Oggi Antigone è un’associazione che si occupa sempre di carceri e in quest’ultimo periodo della diffusione del covid ha monitorato la diffusione del virus nelle strutture carcerarie. Un’altra esperienza con la Cooperativa, questa veramente “dolorosa”, fu l’incontro con i “pazzi” del Santa Maria della Pietà, un manicomio che nonostante la legge Basaglia aveva ancora uomini e donne “ristretti”, ma fu un incontro con un’umanità profonda e poetica. La cooperativa pubblicò un raccolta di loro poesie.

Ma sicuramente l’attività che mi ha dato molto sia sul piano sia politico che umano è stata la partecipazione come redattore, in rappresentanza del gruppo Il Manifesto, alla radio libera “di movimento” Radio Spazio Aperto. A me toccava il turno della rassegna stampa il sabato e la domenica, le dirette dalle manifestazione, e il turno di notte con gli speciali di cui ricordo quello sulla droga, ore drammatiche, le città in quegli anni erano invase dall’eroina, a parlare con genitori, e giovani drogati e i tanti ascoltatori “notturni”, che mi fece scoprire il mondo della notte, non quello dei “bagordi” ma quello del lavoro e delle tante sofferenze.

E mentre sfoglio il n. 100 dell’anno LI del quotidiano dedicato al suo cinquantenario, tanti ricordi tornano alla memoria, come i tanti compagni e compagne che in questi anni ci hanno lasciato

Cinquant’anni dopo aver letto il fondo di Luigi Pintor, sul primo numero del giornale, “Un giornale comunista”, di quella prima pagine cosa rimane? Non certo la Fiat che non solo ha cambiato nome e sede legale, ma di quei “duecentomila” rimangono poche migliaia di lavoratori. Non certo la “prima base rossa di Mao” in una Cina ormai potenza mondiale che insidia il primato economico all’America. Ma quello che certo rimane di quella prima pagina, diventando una costante in questi cinquant’anni è l’attacco a tutte quelle forme di “devianza” che allora erano gli studenti o Lotta Cintinua e oggi continuano ad essere studenti, ambientalisti, migranti, con il passaggio epocale di Genova 2001. Cinquant’anni dalla parte del torto, sempre dalla parte degli sfruttati, degli ultimi, di uomini e donne in cerca di dignità nel lavoro come nella vita.

Sempre fedeli a quelle parole di Pintor “Ma se questo giornale potrà favorire e accelerare un tale lavoro, offrire uno strumento di conoscenza, di intervento, di mobilitazione, segnare una presenza e stabilire un punto fermo già in questa fase dello scontro di classe, allora la sua ragion d’essere e la sua verità saranno chiare”.

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Oggi del nucleo storico di quel lontano 1969 resta Luciana Castellina, che nonostante i suoi 92 anni rimane come il socialista Rino Formica (anni 94), una delle più lucide analiste di una generazione politica che si è forgiata negli anni in cui la Repubblica Italiana era attraversata dallo scontro di classe, da un fascismo golpista e stragista, dalla caduta della repubblica dei partiti fino all’avvento dei populismi che purtroppo hanno “infettato” anche la sinistra in questi ultimi anni. 

Loro sono i nostri grandi vecchi, come per altri aspetti lo è Liliana Segre, che con le loro intuizioni e visioni ci offrono ancora la speranza che un mondo diverso è possibile. Parlano a noi, quell’indomita generazione del ’68, ma soprattutto ai tanti giovani a cui noi ormai “rivoluzionari a riposo” affidiamo questo mondo. E un giornale come il Manifesto, può essere ancora oggi un utile strumento per capire le tendenze dell’economia, della politica, della cultura, così come lo fu nei nostri ven’tanni. Di tutta la stampa di sinistra il Manifesto è l’unico giornale cartaceo che resiste. Ben misera fine ha fatto l’Unità, il glorioso giornale di Antonio Gramsci, che ha seguito la discesa del Pci, dopo la liquefazione dell’impero sovietico. Così come l’Avanti! il primo giornale socialista che ha attraversato due secoli e che oggi esce solo on line, scontando la damnatio memoriae socialista.

Ognuno ha i suoi cimeli di guerra esposti sugli scaffali di casa. Sui miei scaffali fanno bella mostra l’intera collezione della Rivista il Manifesto, il primo numero uscì a giugno 1969, e i primi due anni rilegati del giornale.  Fiero oggi si poter dire a Emma, mia nipote, “io c’ero”, quando come in un museo della memoria le mostro i miei libri, le riviste e i tanti oggetti di viaggio a ricordo di paesi, popoli e culture che ho amato e continuo ad amare come la Siria, l’Iran e la Tunisia, un paese, dove da socialista, non pentito, mi resta un altro ricordo la tomba dell’esule Bettino Craxi su cui è scritto: “la mia libertà, equivale alla mia vita”

E oggi cosa resta di questi 50 anni di amore e di odio, di passione per e attraverso il Manifesto?

Sicuramente la “radicalità” che non è estremismo, estremista è anche un fascista.

Radicalità è quel moto dell’intelletto che ti spinge a ricercare la radice delle cose, di non accontentarti di ciò che sta in superficie, ma come la “vecchia talpa, continua a scavare sotto, di non accontentarsi di quello che vede o che altri vogliono che tu veda.

Essere radicali e socialisti oggi per me vuol dire non credere alla storia del biennio 1992-1994 cosi come ce l’hanno voluta raccontare, non credere che la repubblica dei partiti sia stato una statua dai piedi di argilli…

Alla fine degli anni ottanta sono diventato un militante socialista, ma la lettura de il Manifesto a cui aggiungevo anche quella di un altro storico giornale della sinistra l’Avanti! Non mi ha mai abbandonato.

E oggi a distanza di cinquant’anni sono andato all’edicola e ho chiesto “Il Manifesto”, perché non c’è niente di più, qualcuno direbbe “sensuale”, che sfogliare quella carta e sentire quell’odore di stampa. Ed è vero quello che diceva il filosofo Hegel che il giornale è la preghiera laica del mattino, come la sua lettura e le tante parole che vi sono scritte ci ricordano una frase di don Milani “Un operaio conosce 100 parole, il padrone 1000. Per questo lui è il padrone”.

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Roberto Papa

“Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati”. (Bertold Brecht)

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