La rabbia protagonista a InCorti da Artemia
Le Bravure di Capitan Spavento aprono l’ottava edizione di inCorti da Artemia
Sono quattordici i corti che andranno in scena all’VIII edizione di InCorti da Artemia, il festival nazionali di corti teatrali, ideato e curato da Maria Paola Canepa, che ne è anche la direttrice artistica. Tre serate durante le quali una giuria di esperti e il pubblico, voteranno le categorie messe in concorso.
Tra i corti in gara Le Bravure di Capitan Spavento, scritto e diretto da Gabriele Guarino, con Alberto Falcioni e Carmine Paraggio, che apriranno il Festival venerdì 19 alle ore 21.00 presso il Centro Culturale Artemia.
Salve! Perché vi siete iscritti a InCorti da Artemia?
Buongiorno a voi e grazie per l’opportunità. Ci siamo iscritti poiché crediamo molto nel confronto tra i linguaggi diversi del teatro, crediamo che la compresenza di tante realtà che nutrono le loro ricerche possano suggerirsi stimoli e ispirazioni a vicenda, e fornire un orientamento generale su quali siano le direzioni che la drammaturgia contemporanea sente più urgenti.
Per quanto riguarda la competizione, la interpretiamo come un’occasione utile e umile per poter ricevere una misura, per quanto relativa e parziale, comunque preziosa, per riflettere sull’evoluzione della nostra esperienza e di questo spettacolo in particolare.
Cosa vi aspettate da festival?
Dal festival ci aspettiamo di poter ampliare il nostro bagaglio di conoscenze, di lasciarci affascinare da altre poetiche, altre estetiche, di riflettere con maggiore consapevolezza su quali strumenti ci occorrono per ampliare la nostra ricerca teatrale.
Parliamo del vostro corto. Chi è Capitan Spavento? Cosa o chi rappresenta?
Il Capitano è una delle più antiche maschere della storia del teatro in generale. Sin dal mito di Ares, il teatro ha da sempre sentito l’urgenza di esorcizzare la tendenza perenne dell’uomo alla guerra, al conflitto, alla sopraffazione, alla prevaricazione del più forte sul più debole.
Quando nacque la Commedia dell’Arte, detta allora “Commedia Improvvisa”, il Capitano era la maschera attraverso la quale il popolo prendeva in giro il militare e il suo bisogno di dimostrare la propria forza, la sua ricerca della “vana” gloria per il suo eroismo e, di conseguenza, mostrandone il lato codardo, ne svelava la natura inconsistente.
Il Capitan Spavento fu il nome d’arte di uno dei più grandi attori comici del XVI secolo, Francesco Andreini, e il suo lavoro editoriale, da cui prende spunto il testo del nostro corto, fu un tentativo di compilazione di tutti quei materiali testuali accumulati durante la sua carriera teatrale, riorganizzata in dialoghi tematici, che avevano come filo conduttore la ricerca della gloria da parte di un personaggio tronfio e autocentrato, sulla base di assurde imprese inventate e esagerate.
Due attori che sono afflitti dalla rabbia, come la vivono e come l’affrontano?
I due attori che vediamo in scena partono, sui versi danteschi dell’VIII canto dell’Inferno, da un concetto molto semplice: L’ira espressa e l’Ira repressa sono due fasi di uno stesso processo. La rabbia repressa di uno dei due, causata da un episodio di violenza subito, inizia a produrre a sua volta violenza, attraverso un gesto apparentemente piccolo, insignificante, come strappare un fiore. E alla domanda sul “perché farlo” la prima risposta che il giovane represso può fornire è “nessuna conseguenza”.
Questo per noi è molto importante, ci fa capire che spesso la violenza nasce da gesti piccoli, invisibili, per poi, negli anni, portare a conseguenze più estreme. Ma è proprio da quel minimo, primo, atto di violenza che nasce immediatamente la maschera. Non aspetta di apparire dopo un gesto plateale e cruento, ma segnala da subito la presenza della violenza latente che sta iniziando a prendere piede.
L’altra maschera, il servo Trappola, è esattamente la controparte che consente alla violenza di sopravvivere, il lato fintamente critico, ma totalmente assoggettato e complice silente e vigliacco. E nel linguaggio della maschera, estremo ed eccessivo, la risposta a quel “perché” iniziale non è più solo “nessuna conseguenza”, ma è finalmente la dichiarazione dell’intento reale del violento represso, e cioè che “mi dovevo sfogare”.
Le conseguenze messe in scena sono estreme, si arriva alla violenza. Secondo lei, la rabbia espressa è maggiore o minore di quella del passato e perché?
La rabbia di oggi non è diversa da quella del passato, ha solo cambiato maschera. Cambiano le forme, le stimolazioni, le circostanze, i modi con cui esprimerla. Certamente oggi l’aumento di questi modi ci impedisce di nasconderci dietro un dito, non possiamo non vederla, non percepirla, non accorgerci di quanto sia permeata nel vissuto di ognuno di noi, persino all’interno delle leggi promosse e promulgate da coloro che dovrebbero garantire un’armoniosa e pacifica convivenza civile. La dimostrazione è che di questo argomento il teatro, la letteratura, le arti, ne hanno sempre segnalato la presenza, in ogni secolo.
Spesso la rabbia si manifesta dietro le tastiere, tra persone che si nascondono attraverso i social, la rete, che possono diventare veicoli di rabbia, come combatterla?
Il fenomeno degli haters è esattamente il punto finale del percorso sulla violenza, che da invisibile quando repressa, torna a essere invisibile nella sua massima espressione e non a caso rappresenta la conclusione della versione integrale del nostro spettacolo. È la nuova maschera e le maschere non si combattono frontalmente, vanno eliminate… smascherandole, o diminuendone l’effetto togliendo loro importanza. Ma soprattutto le maschere vanno comprese e analizzate nel loro momento di nascita, esattamente quando io, persona qualunque della società contemporanea, decido per la prima volta, di scrivere un commento di odio.
Perché all’improvviso uso questo sistema? Cosa me lo fa preferire a un altro? La sicurezza dello schermo che mi fa sentire protetto? Forse. Magari anche l’illusione di una sensazione di onnipotenza, che attraverso questa maschera, io possa fare tutto, arrivare dappertutto, conoscere qualsiasi cosa voglia, e dire quello che mi pare a chi mi pare, senza subirne una diretta conseguenza.
Perché se io quel commento di odio lo esprimessi di persona, dovrei essere pronto a subire la conseguenza non necessariamente di una risposta violenta di difesa, ma anche solo di vedere il male, la sofferenza, la disperazione che ho causato. E non sono pronto a farlo. Certamente se fossi educato alle relazioni, ai sentimenti, se avessi sufficienti strumenti per gestire i rapporti umani, non ricorrerei automaticamente a questi sistemi per evitarle.
Grazie e in bocca al lupo!
Grazie a voi. Non diciamo “crepi il lupo” perché sarebbe anche quello un atto di violenza nei confronti del lupo. Viva tutti i lupi che sorvegliano e animano la grande foresta teatrale.
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