“Non c’e’ pace”. Un libro di Romina Perni e Roberto Vicaretti (prima parte)
“La terza guerra mondiale a pezzi” (papa Francesco)
Il conflitto nel Nagorno-Karabakh che vede di nuovo contrapporsi armeni ed azeri è l’ultimo episodio di quella “terza guerra mondiale a pezzi” denunciata nel 2014 da Papa Francesco. Questo conflitto, come i tanti che stanno insanguinando questa parte di mondo, vedono intrecciarsi motivi di rivendicazioni territoriali, economici (un corridoio dove transitano i pipeline di gas e petrolio che dal mar Caspio arrivano ai mercati europei), e non esclude motivi religiosi (gli armeni sono in prevalenza cristiani, gli azeri musulmani sciiti), e che vede schierarsi su due fronti le potenze dell’area, Russia a favore degli armeni, la Turchia a favore degli azeri.
Proprio qualche giorno fa a Colleferro, promosso dalla locale sezione Anpi, “la Staffetta Partigiana”, si è svolto un interessante dibattito sul libro di Romina Perni e Roberto Vicaretti “Non c’è pace. Crisi ed evoluzione del movimento pacifista” (edizioni People, 2020). Da questo dibattito sono nate due riflessioni da parte di “pacifisti” di due generazioni diverse: il millennial, Martino Darelli e il sessantottino, Roberto Papa.
Come si fa la pace? di Martino Darelli
Ricordo… anzi: non ricordo di aver mai fatto un dibattito sulla Pace nella mia esperienza politica. La prima volta, qualche giorno fa, a Colleferro, ne ho avuto l’occasione durante un’iniziativa promossa dalla Sezione ANPI locale.
Nel 2003, quando questo dibattito era sfociato nella famosa piazza da tre milioni di persone, io avevo 4 anni e ricordo che si parlava di pace. I miei parenti – le mie zie – mi regalarono due belle bandiere arcobaleno; ripensandoci, quelle bandiere sono state sicuramente al corteo. I giornali e i telegiornali ne parlavano, ho dei vaghi ricordi; ne parlarono sicuramente per qualche anno ancora. È probabile però che quel movimento stava già vivendo le contraddizioni organizzative che oggi si manifestano con pienezza, quelle che nel 2007 portarono alla fondazione di un partito liquido, incapace già alla nascita di organizzare i temi in un unico sistema ideologico, e, quel movimento, si esaurì in poco. Ma non entro in questo cieco dibattito.
Comunque ho dei ricordi, delle immagini poco nitide: di Caschi Blu dell’ONU, di vari presidenti statunitensi che inneggiavano alla pace, che esportavano la pace, che la impiantavano… con la guerra.
Sono convinto che da bambini le assurdità le si vedano molto meglio e ricordo che il tema della pace affrontato nel modo di quei soggetti era una cosa assurda.
Forse, coi criteri di assurdità di un adulto, la vera follia è che di quel dibattito oggi non ve ne sia più traccia.
Banale nella forma, complesso nella sostanza, il tema della Pace non è certo recente e porta con sé riflessioni e riferimenti ad altri temi, di ogni genere. Non è un caso che sia stato il motivo dello scioglimento della Prima Internazionale; e, allo stesso modo, non è un caso che sia stata bandiera dei partiti Socialisti e Comunisti, tema centrale del secondo Novecento, rilanciatosi ed esauritosi subito dopo, come un ritorno di fiamma, con la “fine della storia”.
E queste caratteristiche ci introducono alla domanda, che poi è la domanda, centrale nel dibattito: ma come si fa la Pace?
Verrebbe da rispondere tautologicamente: non facendo la guerra.
Allora per fare la pace bisogna comprendere le ragioni della guerra, va da sé. Ma chi le capisce queste ragioni? Quelli che hanno studiato, gli intellettuali, gli statisti, gli imprenditori, i politici: che in via definitiva sono coloro i quali ordinano di fare la guerra, che hanno interesse materiale di fare la guerra, mandando al macello quelli che invece non hanno le capacità per comprenderla.
La grande contraddizione della guerra: chi la vuole non la fa, e chi non la vuol fare si ritrova a farla.
Da soldati, per non fare la guerra bisogna avere una coscienza propria solo di chi è come Piero, della canzone di de André, una coscienza che porta alla propria morte.
Per fare la pace bisogna prevenire la guerra, agire sulle ragioni che portano al conflitto. Ma bisogna stare attenti perché agire su quelle ragioni non è facile, anzi è pressoché sicuro che prevenire il conflitto porta ad altri conflitti.
Mettiamo che per anticipare i conflitti bisogna che vi sia capillarmente benessere economico: dove c’è malessere c’è malcontento, dove c’è malcontento c’è odio; e l’odio, lo vediamo in questa fase, è facile da cavalcare; sull’odio è possibile costruire il consenso contro un nemico, ed il nemico è uno dei soggetti del conflitto.
Insomma, dove c’è benessere non c’è ragione di creare conflitto. Allora bisogna fare politiche sociali, di redistribuzione: in una locuzione possiamo dire che bisogna perseguire la giustizia sociale. Ma questa giustizia sociale è uguale ovunque? E se sì (ma ovviamente no), può essere esportata? può essere imposta senza che si creino conflitti? Certamente no. Vale come esempio la campagna di “esportazione della democrazia” statunitense: lo abbiamo visto tutti quanto sia stata deleteria, ne vediamo ancora oggi i risultati. Il Medioriente è in fiamme da anni perché si è voluto impiantare paradigmi della cultura occidentale all’interno di territori che per storia e cultura ne sono lontani e dunque la ripudiano sistematicamente.
Allora questa giustizia sociale va ricostruita dal basso: va costruita una coscienza di classe, elaborata nel territorio dove si costruisce e quindi adattata alla cultura locale. Serve un’organizzazione, servono un sindacato e un partito – se “partito” è una parola che fa paura, possiamo concordarne un’altra, ma il succo è l’organizzazione dal basso. Un’organizzazione capace di porre i temi reali, di far convergere chi vive nel disagio economico sotto un’unica proposta che porti al miglioramento delle condizioni sociali. Ma questo serve farlo lì, dove oggi si creano i conflitti a causa di una “giustizia” sociale imposta dall’alto.
Ma anche se costruita dal basso, la giustizia sociale dove non c’è porterà a dei conflitti. In questo caso, il conflitto di classe: tra chi è salariato o precario e tra chi ha importanti interessi economici da proteggere. È una ingiustizia che ha bisogno di essere livellata, ma per farlo bisogna andare a toccare le ragioni e gli interessi economici.
La riflessione si fa profonda e contorta. Proviamo un’altra strada.
La pace si fa per legge?
L’articolo 11 della nostra Costituzione lo dice chiaro, chiaro. Basterebbe un’interpretazione estensiva di quell’articolo, e non ridicolamente letterale, per iniziare ad impedire la produzione privata di armi e soprattutto la vendita al di fuori dell’Italia ed a privati cittadini. Potrebbe bastare svincolarsi dall’arcaico Patto Atlantico, far rientrare tutte le truppe sul suolo nazionale, ridimensionare la spesa militare ad uso difensivo. E iniziare a spendere i soldi risparmiati in programmi di aiuto, in campagne diplomatiche.
È evidente che tutto questo non è possibile farlo: ci sono interessi di ordine economico e politico dietro. Gli interessi di chi produce armi, il cui fatturato miliardario può essere un’eloquente e bastevole spiegazione del perché non si impedisce l’esportazione di armi; fatturato che inoltre fa sì che il settore dia lavoro a decine di migliaia di persone. C’è l’interesse di chi deve aprire nuovi mercati o produrre dove costa meno o dove vi sono le risorse, è la storia del colonialismo. Ma c’è anche l’interesse della politica: non dimentichiamoci che il Mediterraneo è crocevia di commerci intercontinentali, il controllo del mare nostrum è vitale da una prospettiva geopolitica ed in ottica di potenza, ed il suo controllo non avviene certamente con carezze e “per favore”; da questo punto di vista si spiega il corposo numero di navi da guerra nel Mediterraneo dei paesi mediterranei (UK compreso): 452.
Allora torniamo a chiederci nell’interesse di chi e di che cosa si fa la guerra, nell’interesse di chi si presidiano mari e terre con armi, e armi atomiche. Perché?
Per interessi economici, in ultima analisi.
Allora chiediamoci se la guerra ed i conflitti sono evitabili nell’attuale sistema economico e politico.
Io penso proprio di no.
In ultimo, la domanda iniziale mi pare che sia destinata a modificarsi in questa nuova formulazione:
è possibile fare la pace senza conflitto?
A noi la ripresa di questo dibattito.
Gli autori:
Martino Darelli, vicepresidente sezione ANPI di Palestrina
Roberto Papa, membro direttivo sezione ANPI di Palestrina
(Leggi la seconda parte)
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