2 novembre 1975: massacro di un poeta
l’autrice esamina, confronta, riempie buchi informativi
Il 2 novembre 1975 all’Idroscalo, zona degradata ad est di Ostia, veniva ucciso Pier Paolo Pasolini. Simona Zecchi, autrice del libro “Pasolini. Massacro di un poeta”, pubblicato nel 2015 dal Ponte alle Grazie, a quarant’anni da quel “massacro tribale”, ne ha parlato, giovedì scorso, durante il primo incontro di “Un libro a Teatro”, presso il Teatro Caesar di San Vito Romano.
Il libro di Simona Zecchi, riparte da zero. Nella forma del giornalismo investigativo, a differenza del giornalismo tradizionale, che si fonda su un criterio di legittimità delle fonti ufficiali e istituzionali, l’autrice esamina, confronta, riempie buchi informativi, cita fonti giudiziarie, esamina prove fotografiche mai analizzate, porta alla luce documenti inediti, interviste e testimonianze esclusive, ascolta testimoni, mai sentiti durante i processi, fa parlare esponenti di quella destra eversiva da Concutelli a Giovanni Ventura, che una parte importante hanno avuto nella storia “nera” di questo paese. Un percorso durato cinque anni che ha prodotto un volume di oltre 300 pagine.
Il suo lavoro decostruisce i due moventi che furono accreditati nel corso degli anni: quello maturato nel mondo dei prostituti maschili, quei ragazzi di vita descritti nelle prime opere di Pasolini: “Ragazzi di vita” e “Una Vita violenta”, quale reazione all’”omosessualità violenta” del Poeta e l’altro maturato intorno al “misterioso” Appunto 21, parte dell’ultimo libro, incompiuto di Pasolini, Petrolio.
Il libro della Zecchi ricostruisce lo “schema perfetto” di un “massacro tribale”, dove si parla di:
- un oscuro attentato alla centralina SIP vicino la casa all’Eur di Pier Paolo Pasolini qualche giorno prima dell’uccisione
- un furto di bobine (Salò insieme ad altre) come espediente per l’agguato
- la presenza di più macchine sul luogo del delitto
- i testimoni mai ascoltati
- la presenza di più persone (13?) all’idroscalo e non del solo Pelosi
- la matrice fascista e le cointeressenze politiche e di intelligence
- un Andreotti che dirà “se l’è cercata” come dopo lo dirà per Ambrosoli
- il depistaggio: pezzi di verità sui tempi dettati da Pelosi
- il ruolo della stampa: trasformare Pasolini da vittima a carnefice
- il ruolo di alcuni intellettuali di sinistra di accreditare la morte di Pasolini alla sua omosessualità “violenta” (Fortini, Sanguinetti, Moravia, Belpoliti).
Federico Zeri, paragonando la morte del Poeta a quella di Caravaggio, scrisse: “Secondo me c’è una forte affinità tra la fine di Pasolini e di Caravaggio, perché in tutte e due mi sembra che questa fine sia stata inventata, sceneggiata, diretta e interpretata da loro stessi”.
Il lavoro si Simona Zecchi cerca di ricostruire l’opera di depistaggio (modalità che purtroppo sembra una costante della storia italiana, dalla strage di Piazza Fontana fino all’ultimo caso “la morte di Stefano Cucchi”) messa in atto subito dopo l’omicidio di Pasolini. Omicidio che maturò in un’Italia attraversata da forti tensioni politiche-sociali, dove tentativi di golpe fascisti, terrorismo nero e terrorismo rosso insanguinavano le strade del nostro paese. Un clima che lo stesso Pasolini così descrive: “L’Italia sta marcendo in un benessere che è egoismo, stupidità, incultura, pettegolezzo, moralismo, coazione, conformismo: prestarsi in qualche modo a contribuire a questa marcescenza è ora, il fascismo”.
Una parola “fascismo” di cui nella storia del novecento se ne è fatto largo uso e che è come un “perenne ritorno”. Umberto Eco ne ha scritto in un suo libro “Il fascismo perenne” e da ultimo anche Michela Murgia: “Manipolando gli strumenti democratici si può rendere fascista un intero paese senza nemmeno mai pronunciare la parola “fascismo”, che comunque un po’ di ostilità potrebbe sollevarla anche in una democrazia scolorita, ma facendo in modo che il linguaggio fascista sia accettato socialmente in tutti i discorsi…..”.
“La firma dei neofascisti” citata in prima di copertina del libro, ci indica già la conclusione a cui l’ inchiesta ci conduce.
Pasolini “un frocio comunista e basta” o un intellettuale che attraverso le sue opere denunciava le trame, “gli oscuri misteri” del Palazzo? E chi lo voleva morto e perché? Forse si era avvicinato troppo ai mandanti delle stragi fasciste e di quella che fu definita “la strategia della tensione”. Iniziata ben prima di quel 12 dicembre 1969, la strage di Piazza Fontana, dove morirono 17 persone e vi furono 85 feriti, rappresentò uno spartiacque nella storia italiana. Norberto Bobbio scrisse nel 1984: “La degenerazione del nostro sistema democratico è cominciata da lì, dal momento in cui un arcanum (…….) è entrato imprevisto e imprevedibile nella nostra vita collettiva, l’ha sconvolta, ed è stato seguito da altri episodi non meno gravi rimati altrettanto oscuri”.
Pasolini su quella strage girò un docufilm dal titolo “12 dicembre”, su invito di Adriano Sofri, allora leader del gruppo extraparlamentare di sinistra Lotta Continua. Pasolini volle raccontare cosa stava accadendo a quell’Italia che aveva “perso l’innocenza”, fotografare un momento storico che avrebbe segnato per sempre la vita di coloro che lo stavano attraversando, compresa la sua e da quel giorno per lui come per molti della generazione “sessantotto” nulla fu come prima.
Poi nell’anno della strage fascista di Brescia (8 morti) e dell’Italicus (12 morti), cinque anni dopo Piazza Fontana, scriveva sul Corriere della Sera (14/11/1974) delle “profetiche parole”, forse la sua condanna a morte e il suo testamento politico: “Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato “golpe” (e che in realtà è una serie di “golpe” istituitisi a sistema di protezione del potere). Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969. Io so i nomi dei responsabili delle stragi di Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974. Io so i nomi del “vertice” che ha manovrato, dunque, sia i vecchi fascisti ideatori di “golpe”, sia i neo-fascisti autori materiali delle prime stragi, sia infine, gli “ignoti” autori materiali delle stragi più recenti”.
Pasolini non è stato solo un testimone del novecento italiano, forse il più importante, ma anche il più partecipe con i suoi romanzi, opere cinematografiche o saggi su quel cambiamento, o come lui lo definiva “omologazione”, come prodotto del “consumismo capitalistico”.
E’ stato l’intellettuale “partecipante”, altro che “chierico” chiuso in una “torre d’avorio”.
Pasolini in “Io so” scrive a proposito del ruolo dell’intellettuale: “All’intellettuale – profondamente e visceralmente disprezzato da tutta la borghesia italiana – si deferisce un mandato falsamente alto e nobile, in realtà servile: quello di dibattere i problemi morali e ideologici. Se egli vien meno a questo mandato viene considerato traditore del suo ruolo: si grida subito (come se non si aspettasse altro che questo) al “tradimento dei chierici” è un alibi e una gratificazione per i politici e per i servi del potere”.
Pasolini negli ultimi tempi temeva per la sua vita, tanto che nell’ultima intervista rilasciata a Furio Colombo, poche ore prima di essere ucciso, disse “Lo sanno tutti che io le mie esperienze le pago di persona. Ma ci sono anche i miei libri e i miei film. Forse sono io che sbaglio. Ma io continuo a dire che siamo tutti in pericolo”.
Ma chi lo voleva morto e perché? Il “massacro tribale” del Poeta si inquadra nel clima torbido di quegli anni sessanta e settanta attraversato da tentativi di golpe dal Piano Solo al golpe Borghese (Nenni, segretario del Partito Socialista Italiano, negli anni sessanta, agli albori del centrosinistra, lo definì “il tintinnar di sciabole”), a cui poi in un crescendo si aggiunsero sanguinose stragi (la strategia della tensione) per arrivare agli “anni di piombo” con le strade insanguinate dai morti e feriti del terrorismo rosso e di quello di matrice fascista per arrivare poi agli attentati della mafia del 1992 (Falcone e Borsellino) e 1993 (Roma). Prima di essere assassinato Giovanni Falcone disse, riferendosi agli attentati mafiosi: “Ci troviamo di fronte a menti raffinatissime che tentano di orientare certe azioni della mafia. Ho l’impressione che sia questo lo scenario più attendibile se si vogliono capire davvero le ragioni che hanno spinto qualcuno ad assassinarmi”.
“Menti raffinatissime”, i così detti “mandanti” che hanno pilotato la Politica “criminale” italiana attraverso entità che di volta in volta entravano in azione per condizionare la storia italiana: Avanguardia Nazionale, Ordine Nuovo, Ordine Nero, Banda dei Marsigliesi, la manovalanza marchettara e fascista, lo stato parallelo e i servizi di intelligence e, infine, il Palazzo.
Questo meccanismo di cointeressenze non è la prima volta che si verifica in Italia. Era già accaduto proprio per la strage di Piazza Fontana come riporta Benedetta Tobagi a pag. 11 nel suo ultimo libro su “Piazza Fontana”: “Intorno alla strage di Piazza Fontana, inchieste giudiziarie e studiosi concordano nel riconoscere la convergenza di una pluralità di attori, che perseguivano obiettivi differenti”.
Nel libro della Zecchi ci sono tutti gli elementi per un plot da noir italiano (in questo siamo maestri. Penso a Lucarelli, Carlotto, De Cataldo, Carofiglio, ecc.). Purtroppo siamo dentro una trama “reale” di un agguato.
Un dei tanti Misteri Italiani.
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