Si può perdonare veramente l’atroce assassinio di una persona amata?
Gemma Calabresi Milite racconta il suo percorso personale di perdono nel libro “La crepa e la luce”
Cinquant’anni fa moriva il commissario Luigi Calabresi assassinato da esponenti di Lotta Continua. Erano gli anni di piombo. Anni bui in cui il terrorismo dilagava in Italia. Il commissario Luigi Calabresi, come molti poliziotti e politici del tempo, si trovava nell’occhio del mirino di gruppi anarchici ed estremisti che fomentavano odio soprattutto tra i giovani. Difficile immaginarlo per chi non l’ha vissuto.
La città di Milano, dove lavorava e viveva con la sua famiglia il commissario, era teatro di sparatorie, manifestazioni violente e attentati terroristici. Il più eclatante fu indubbiamente la strage di Piazza Fontana: una bomba fu fatta esplodere nella Banca Nazionale dell’Agricoltura, nel cuore della città, uccidendo 17 persone e ferendone diverse decine. Calabresi era in prima linea nelle indagini sulla strage, durante le quali perse la vita – si seppe poi per malore – l’anarchico Pinelli. Il commissario fu subito ingiustamente additato come responsabile della morte del giovane dai gruppi anarchici. Fu vittima di un vero e proprio linciaggio, che stravolse la sua vita e quella dei suoi famigliari. Sposato con Gemma, aveva due figli e un terzo era in arrivo quando fu ucciso. “Quella mattina”, il 17 maggio del 1972, quando Calabresi fu ucciso, “era una mattina qualunque, come per tante famiglie italiane.” racconta Gemma, “Una mattina di routine. Non si sa mai quando siano gli ultimi gesti che facciamo, quando sono le ultime parole che diciamo o che ascoltiamo. Purtroppo, non si sa.”.
La signora Gemma Calabresi Milite, invitata per una testimonianza dal Centro Culturale San Mauro della Comunità Pastorale della Divina Misericordia alle porte di Milano lo scorso 4 marzo, ricorda quegli anni e racconta la sua storia, il suo cammino per sopravvivere a quel dolore improvviso e tremendo, arrivando perfino a perdonare i “responsabili” dell’omicidio di suo marito. Un racconto che è diventato un libro, “La crepa e la luce”, edito da Mondadori, uscito da poche settimane nelle librerie.
Ad accoglierla, nella sala del teatro don Bosco di Gessate (Mi) gremito di gente, la canzone di Leonard Cohen, “Anthem”, da cui forse ha preso ispirazione per il titolo del suo libro. La canzone recita “C’è una crepa in ogni cosa ed è da lì che entra la luce“. Può nascere dunque del bene da un’azione di male così grande come un omicidio?
C’è tanta tenerezza nelle sue parole, che lasciano emergere un amore sospeso, mai sopito, per il suo “Gigi”. Gemma allora aveva 25 anni. Quella mattina stava dando la colazione ai suoi due bambini Mario – di due anni e tre mesi – e Paolo – di 11 mesi – quando salutò per l’ultima volta suo marito. Luigi Calabresi fu assassinato con due colpi di pistola alle spalle mentre usciva di casa quella mattina per recarsi al lavoro.
Ci vollero undici anni di processo per arrivare alla verità. Anni vissuti dalla signora Calabresi con grande dignità e riservatezza. Tanto che sulla loro storia, la storia della famiglia Calabresi, il primo a spezzare il silenzio fu il figlio Mario con il suo libro “Spingendo la notte più in là” uscito nel 2010. Il libro era il frutto, racconta nelle prime pagine il giornalista-scrittore, del desiderio di narrare gli anni del terrorismo anche dalla parte delle vittime e delle loro famiglie.
Gemma nel suo libro vuole però raccontare la propria esperienza interiore, di donna a cui è stato strappato improvvisamente il suo grande amore, di madre che nonostante l’orrore di quanto accaduto vuole insegnare ai suoi figli a non vivere nel rancore. Il sottotitolo del suo libro recita infatti “Sulla strada del perdono. La mia storia”.
Scrive questo libro per “gli altri”, racconta, per le persone sconosciute che in questi anni le hanno dato solidarietà e le sono stati vicini, perché mai si è sentita sola. Scrive questo libro per chi sta vivendo una grande sofferenza, per testimoniare che si può tornare a vivere, si può tornare a gioire.
A sostenerla è stata la fede. Sin da piccola aveva avuto un’educazione cristiana, ma confessa di aver ricevuto la fede proprio quella mattina, abbandonata sul divano, in preda allo strazio di un dolore lancinante per morte del marito. Un dolore, dice, che porta ad un “vuoto totale, come se nulla più avesse senso”. Inaspettatamente però racconta di come questo immenso senso di vuoto fu interrotto da “una sensazione di grande pace, di assurda pace – perché non si può provare pace in una situazione del genere – Una sensazione di grande forza. Io sento che ce l’avrei fatta. Quella mattina ho ricevuto da Dio il dono della fede.” E aggiunge “La fede non toglie il dolore o la sofferenza, però li riempie di significati. Perché ti dà la speranza. Non ti fa sentire da sola. E piano piano nel tempo ti torna la voglia di vivere.” Una fede, che, sebbene avvertita in quel momento, ha avuto bisogno di tempo per crescere in lei. La signora Calabresi ricorda degli “anni bui, di tristezza, di rabbia.”, di quando segretamente sognava di infiltrarsi tra i gruppi anarchici, scoprire gli assassini del suo Gigi e sparargli a bruciapelo. Un sogno di cui ora si vergogna ma che allora le riusciva a dare pace.
Una vita tormentata, quella della signora Gemma, che vede anche perdere il suo secondo marito, Tonino Milite.
Una testimonianza piena di umanità, ma anche di luce, quella luce di cui rifulge chi ha trovato una serenità interiore e la gioia di vivere.
La chiave di svolta per il suo cammino di perdono è stato il dialogo con alcuni dei suoi alunni della scuola elementare a cui insegnava religione. Un bimbo le chiese perché dei morti si dicessero solo cose belle, come se morissero solo i buoni. A quel suo alunno Gemma ricorda di aver risposto che delle persone che ci lasciano dobbiamo ricordare gli esempi positivi, l’amore per gli altri, i suoi valori, le cose buone che abbiamo fatto. Ma da quella sua risposta Gemma intuisce dentro di sé che forse anche gli assassini di suo marito non erano solo assassini, ma anche mariti, padri, amici. Negli anni, in tribunale, li aveva potuti vedere relazionarsi con tenerezza con i propri figli. “Piano piano gli ho ridato la loro umanità, la loro vita, con tutte le sue sfaccettature.” racconta “Ho fatto il contrario di quello che faceva il terrorismo: quando sceglievano un obiettivo da colpire loro disumanizzavano quella persona. Con la calunnia, con le scritte sui muri, con gli slogan gridati sui muri. E una bugia detta una volta rimane una bugia, ma una bugia detta un milione di volte diventa una realtà.”
Ai giovani presenti in sala rivolge poi un invito: “Quando siete in gruppo mantenete un pensiero critico. Un pensiero libero. Un pensiero vostro, individuale, di quanto vi hanno insegnato. Non siate gregge. Non fate cose di cui potreste pentirvi, solo perché ve lo dice un leader, perché ve lo dicono gli altri, o perché tutti lo gridano. Perché in quegli anni pochi decidevano e tanti gridavano. Prima di condannare una persona, bisogna conosce, bisogna capire, bisogna informarsi.” Ricorda che quando il male è perpetrato in gruppo non è “meno male”. Un atto di bullismo non è meno grave se fatto in gruppo, perché “la responsabilità non si divide ma si somma.” C’è tanto affetto nelle sue parole, come una nonna che lascia raccomandazioni ai nipoti. Elegante e dignitosa, con un sorriso che le illumina lo sguardo in quel volto segnato da una vita piena di dolore, ma anche di gioie, come non manca di raccontare.
La signora Calabresi ci insegna che “La sofferenza – come la gioia – va condivisa con gli altri, perché abbiamo bisogno di aiutarci reciprocamente”. In un mondo che ripudia la sofferenza e la relega in un intimo spazio personale, il dolore viene sempre più spesso vissuto in solitudine. Diventa motivo di vergogna. Ma il dolore, se condiviso, non solo riesce a sfumare più velocemente, ma è capace di tessere dei legami così profondi da generare anche tanto bene.
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