E tu, che lavoro sei?
Un viaggio tra lavoro e identità messo in scena dai detenuti del carcere di Bollate
Il teatro, per sua natura, offre uno spazio di riflessione e introspezione, un terreno dove le storie possono fiorire e farci vedere la realtà sotto una nuova luce. Lo spettacolo E tu, che lavoro sei? messo in scena dalla compagnia teatrale I Figli di Estia dell’Associazione Culturale PrisonArt, va ben oltre il semplice intrattenimento. Ci porta in un territorio poco esplorato, quello del lavoro come fattore di definizione sociale, e lo fa attraverso la voce e il corpo di attori-detenuti.
Per la prima volta, questa rappresentazione ha oltrepassato le mura del Carcere di Bollate (Mi) ed è stata messa in scena al Teatro Spazio Sfera di Bussero – alle porte di Milano – lo scorso 18 ottobre. Una serata che, tra delicatezza e intensità, ha toccato il cuore del pubblico, dimostrando che il teatro può davvero essere un potente strumento di cambiamento e connessione.
E tu, che lavoro sei? nasce da una domanda apparentemente semplice: siamo davvero definiti dal lavoro che facciamo? O, come ci viene suggerito nel corso dello spettacolo, il nostro lavoro è solo una parte della complessità che ci caratterizza come esseri umani? Lo spettacolo esplora il significato del lavoro nella nostra vita, ma anche le disuguaglianze e le lotte che circondano il mondo lavorativo in Italia.
Sul palco, dieci attori-detenuti raccontano frammenti di vita, piccoli quadri che si susseguono tra riflessioni e momenti di grande impatto emotivo. Il loro essere lì, a mettersi a nudo davanti al pubblico, è già un atto di coraggio. Non si limitano a recitare un copione: portano la propria esperienza di vita, i propri sogni e le proprie paure, creando un ponte diretto con chi li osserva. Si parla del lavoro, sì, ma si parla anche di umanità, dignità e speranza.
L’atmosfera in sala era palpabile. Tra il pubblico, famiglie, amici, guardie penitenziarie, cittadini di Bussero e del territorio circostante. Un mix di persone che hanno saputo creare un clima caldo, quasi familiare, abbattendo quelle barriere invisibili che spesso dividono “noi” da “loro”. Perché sul palco non c’erano più solo detenuti, ma persone, individui con una storia, con emozioni che hanno toccato profondamente chiunque fosse presente.
La compagnia I Figli di Estia è un progetto speciale, nato all’interno del Carcere di Bollate grazie alla volontà di un gruppo di detenuti che avevano lavorato con Michelina Capato. Dopo la chiusura della Cooperativa Estia, hanno deciso di mantenere vivo il suo insegnamento e di proseguire questo percorso artistico e umano. Il nome della compagnia è, infatti, un omaggio a Capato, una figura di riferimento per tanti di loro.
Il teatro è diventato per questi detenuti uno strumento di rinascita, di riscatto personale. Come ha ricordato la regista Lorenza Cervara nel suo intervento finale, il teatro è prima di tutto relazione: con sé stessi, con gli altri attori e, soprattutto, con il pubblico.
Cervara ha anche voluto ricordare le parole di Michelina Capato, che sono il cuore pulsante di questo progetto: “Tutti hanno diritto ad essere visti per la persona che sono, al di là del reato commesso o del lavoro che svolgono“. Un messaggio che lo spettacolo trasmette con forza, sfidando i pregiudizi che spesso accompagnano chi ha vissuto l’esperienza del carcere. In scena non c’erano solo attori, ma uomini che si sono messi in gioco quotidianamente, andando oltre il loro passato, dimostrando che il teatro può essere una via per la riconciliazione con la propria umanità.
Lo spettacolo affronta temi complessi e universali: lo sfruttamento dei lavoratori, le morti bianche, le malattie professionali, la lotta sindacale. Ma lo fa senza cadere nella retorica o nel didascalismo. Ogni scena è un piccolo frammento di realtà, a tratti crudo, a tratti poetico, che ci costringe a riflettere su cosa significhi davvero lavorare nella società contemporanea.
Il primo articolo della costituzione italiana ci ricorda che il nostro paese è una repubblica democratica fondata sul lavoro (come ricorda anche lo striscione srotolato sullo sfondo a chiusura dello spettacolo), eppure l’Italia è un Paese dove le condizioni di lavoro possono essere dure, dove il precariato e le disuguaglianze sociali sono realtà quotidiane.
Lo spettacolo non si limita a denunciare queste ingiustizie, ma invita il pubblico a porsi delle domande. Il lavoro ci definisce davvero? Quanto vale la nostra vita al di là della nostra professione? Siamo solo ciò che facciamo per vivere o c’è qualcosa di più profondo che ci rende unici?
Le risposte non ci vengono fornite, ma questo è forse uno degli aspetti più belli dello spettacolo: ci lascia con altre domande, ci spinge a riflettere sul nostro ruolo nella società e su come la nostra identità venga plasmata dal contesto lavorativo.
Il calore del pubblico ha fatto da cornice a una performance che, a tratti, è stata commovente. Gli attori sul palco non erano semplicemente detenuti, ma uomini che hanno trovato nel teatro uno spazio per esprimere sé stessi, per riconquistare una parte di umanità che, spesso, come ci ricordano spesso le notizie di cronaca, il sistema carcerario tende a soffocare. E il pubblico ha risposto con empatia, con applausi che andavano ben oltre l’apprezzamento tecnico, erano un segno di rispetto e di riconoscimento per il percorso che questi uomini stanno facendo.
E tu, che lavoro sei? è uno spettacolo che lascia il segno. Non solo per i temi trattati, così vicini alla realtà di tante persone, ma soprattutto per il modo in cui vengono raccontati: con delicatezza, sincerità e una forza emotiva rara. È una riflessione sulla nostra società, su come il lavoro ci plasmi e, allo stesso tempo, su come possiamo trovare una via per definirci al di là di esso.
Il progetto della compagnia I Figli di Estia dimostra che il teatro può essere un potente strumento di cambiamento, non solo per chi lo pratica, ma anche per chi lo osserva. Il pubblico è uscito dal Teatro Spazio Sfera non solo arricchito, ma anche profondamente toccato da un’esperienza che ha saputo mettere al centro l’umanità e la dignità di ogni individuo, indipendentemente dal suo passato o dal suo presente.