Francesca De Sanctis ci parla di Una storia al contrario
In scena lo spettacolo che racconta di rinascita lavorativa e personale
La perdita del lavoro, le difficoltà finanziarie, la famiglia, la malattia, non sempre la vita ci dà quello che vogliamo o, peggio, ci toglie all’improvviso le certezze conquistate a fatica. Francesca De Sanctis, giornalista, ha vissuto la crisi del suo giornale l’Unità, perdendo all’improvviso tutto.
Non solo il lavoro, ma anche una serie di problematiche, si sono affacciate alla sua vita e, tra una rincorsa e l’altra, un’opportunità e una sbattuta di porta in faccia, ha saputo rialzarsi, trovare un lavoro e riprendere la sua vita. Da questa esperienza, come a molti adulti, è nato Una storia al contrario, prima un libro e successivamente uno spettacolo teatrale in scena al Teatro India di Roma, grazie ad Elena Arvigo che dirige e interpreta la giornalista.
Abbiamo rivolto alcune domande a Francesca De Sanctis sull’argomento che, in questo periodo storico, sembra sempre più attuale.
Lei è stata una giovane giornalista, con una vita lavorativa al contrario, prima con un posto assicurato all’Unità e poi, con la chiusura del giornale, con i contratti più disparati. Da donna e lavoratrice, come si è sentita in quel periodo?
La perdita del posto di lavoro all’Unità – dove ero assunta da anni con un contratto giornalistico a tempo indeterminato – è stata per me un vero terremoto, per varie ragioni. Prima di tutto perché il quotidiano fondato da Gramsci non era un giornale come tutti gli altri; per me l’Unità era una seconda famiglia; eravamo una comunità, noi giornalisti ci sentivamo parte di una storia, condividevamo certi valori. Secondo: perdere un lavoro quando hai due bambine da crescere e un mutuo da pagare complica molto le cose, difficile far quadrare i conti senza uno stipendio. Terzo: sapevo che trovare una nuova redazione giornalistica disposta ad assumermi sarebbe stato impossibile. Il mercato del lavoro è cambiato, l’editoria è in crisi, e io non sono più una ventenne.
Sapevo che avrei dovuto rimettere in gioco tutta la mia vita. Per questo, nel 2017, mi sono sentita persa, un pesce in mezzo all’oceano… Ma non volevo smettere di fare quello che avevo sempre fatto e sognato nella mia vita: la giornalista. E così subito dopo ho provato a rimettermi in gioco, a riorganizzarmi, a proporre i miei pezzi ad altre testate. Mi stavo trasformando in una freelance e come racconto nel mio libro (pubblicato tre anni fa da Giulio Perrone, Una storia al contrario) mi sono sentita un po’ come Gregor Samsa nel racconto La metamorfosi di Kafka: Gregor si risveglia trasformato in uno scarafaggio, io in una precaria, entrambi cerchiamo di familiarizzare con la nostra nuova condizione, di esplorare lo spazio che ci circonda cercando di capire dove si può arrivare.
Le donne subiscono maggiormente la mancanza di reinserimento nel mondo del lavoro?
Le donne sono sempre state più penalizzate nel mondo del lavoro. Devono faticare il doppio per dimostrare quanto sono brave, purtroppo alla radice c’è una questione culturale da risolvere, ci vuole tempo per cambiare certi preconcetti sbagliati. E anche nel reinserimento lavorativo le cose naturalmente non vanno meglio, basti pensare a tutte le donne che ai colloqui vengono scartate solo perché hanno una famiglia. Credo che la situazione lavorativa in Italia sia in generale disastrosa. Insomma, è dura per tutti, ma per le donne lo è ancora di più.
All’Unità, un giornale con una grande storia alle spalle, era Vice Caposervizio, poi si è ritrovata senza lavoro e a contendersene uno con tanti altri giornalisti. Come ha vissuto quei momenti?
All’improvviso mi sono sentita abbandonata. È stato come se tutto quello che avevo costruito fino ad allora fosse stato distrutto. Non esistevo più. Non avevo più alcun ruolo. Il telefono aveva smesso di squillare. Le persone non mi cercavano più. Non avevo più un posto. Nella ricerca di un nuovo lavoro mi sentivo schiacciata fra i colleghi più anziani, che difendevano con le unghie gli spazi conquistati, e i giovanissimi, disposti a tutto pur di lavorare, perfino farsi pagare 5 euro a pezzo, che per me è uno scandalo. Fare il giornalista non è un hobby, ma un lavoro, serio. Dunque, non capisco perché se sei assunto hai diritto ad un buono stipendio, se sei un collaboratore fai la fame, è uno dei tanti paradossi di questa professione.
Negli anni di chiusura dell’Unità, 2014 e 2017 già erano presenti grandi crisi nel mondo giornalistico, chi le ha fatto maggiormente la guerra, uomini o donne?
C’è stato un episodio particolarmente brutto che mi ha lasciato il segno. Un uomo, un collega di un’altra testata, non voleva assolutamente che io scrivessi sul suo stesso giornale, temeva che potessi rubargli chissà quale spazio. Iniziò a chiamare tutti i giorni in redazione, finché il caporedattore – che era una donna – mi chiamò e disse: “Forse è il caso che per un po’ non ti occupi più di teatro”. Non ho mai più scritto per quel giornale.
Dalla sua personale esperienza nasce Una storia al contrario, che la racconta: ma come la racconta? Cosa ha evidenziato nella sua narrazione?
Ho cercato di essere più sincera possibile con me stessa e nella scrittura. Mi sono raccontata senza filtri, come quando da bambina scrivevo sulle pagine del mio diario, solo che stavolta non stavo raccontando soltanto la mia storia, ma quella di tanti altri. Intrecciando la storia della mia vita privata con quella di un grande giornale, ho cercato di raccontare soprattutto quello che stava accadendo dentro di me, le mie sensazioni, le gioie e le paure. Che poi alla fine è un libro che parla di questo: della vita, della capacità di rialzarsi dopo una caduta, della voglia di trovare la felicità nonostante tutto.
In scena Elena Arvigo, come vi siete trovate?
Elena è un’attrice formidabile, che seguivo e stimavo da tempo. L’avevo vista recitare, ma non ci conoscevamo di persona. Poi un giorno lei ha letto il mio libro e se n’è innamorata. Ci siamo sentite al telefono e il progetto è nato quasi da solo, in maniera del tutto naturale. Abbiamo iniziato a vederci a casa mia (così ha conosciuto anche la mia famiglia), a lavorare al testo, e poco alla volta è nato lo spettacolo. Elena è una persona passionale, quando sceglie di abbracciare una storia lo fa sempre dando il massimo, non potevo trovarmi male con lei.
Cosa ha apprezzato maggiormente dell’interpretazione della Arvigo? Quali sono stati i suoi consigli?
Andando in scena con il suo corpo e con la sua voce Elena è diventata un’altra me. Mi ha commossa il modo in cui si è accostata ad ogni personaggio della storia, sempre con delicatezza e grande sensibilità. Ma in teatro bisogna fare delle scelte, quindi abbiamo cercato di ragionare insieme su quali parti della storia era necessario sacrificare.
Esperienze di vita forti che le hanno cambiato la vita, come la malattia, cosa vorrebbe consigliare a chi, come lei, troppo spesso ultimamente, si ritrova a dover cercare lavoro in età adulta?
È vero, oggi non solo i giovani, ma anche gli adulti si ritrovano sempre più spesso a perdere il lavoro, anche se si parla poco della precarietà vissuta da adulti. L’unico consiglio che mi sento di dare è quello di non scoraggiarsi, di continuare a credere nelle proprie capacità. Perché non sono in discussione quelle, piuttosto bisogna prepararsi ad essere più flessibili e adattarsi alle nuove forme di lavoro. Anche se non ci piace lavorare a progetto, se è l’unico modo per non rinunciare ai propri sogni bisogna necessariamente adattarsi.
È notizia di pochissimi giorni fa, la firma degli ex dipendenti Whirlpool della Campania, inseriti in una nuova azienda green. La felicità di tutti di poter tornare a lavorare, di poter mantenere la famiglia e ricominciare. Questo stona molto con i luoghi comuni che inseriscono la gente del sud tra quella che non vuole lavorare. Cosa dovrebbe cambiare nel mondo del lavoro per dare la possibilità a tutti di lavorare, di essere parte integrante e attiva della vita economica e sociale dell’Italia?
Intanto sono felicissima per gli ex dipendenti Whirlpool, non ho mai creduto al luogo comune della gente del Sud con poca voglia di lavorare. È vero, invece, che a Sud c’è meno lavoro. Ci sono, quindi, molte cose che dovrebbero cambiare: le aziende del Nord, per esempio, dovrebbero investire di più al Sud, bisognerebbe incentivare i lavoratori meridionali ad accettare posti di lavori al Nord ricorrendo allo smart working ed evitando così di doversi trasferire in città come Milano in cui gli affitti sono insostenibili, e poi bisognerebbe utilizzare i fondi pubblici, soprattutto i Fondi europei, per sviluppare la diffusione dell’innovazione tecnologica nell’industria e agevolare la riconversione di vecchie produzioni in tecnologie meno inquinanti.
Cosa consiglierebbe ai giovani italiani, in cerca di occupazione? E in particolare ai giovani giornalisti?
Ai giovani in generale consiglierei prima di tutto di studiare, in modo tale da essere ben preparati per il lavoro che vogliono fare. A chi vuole intraprendere oggi la professione giornalistica direi di cercare di stare al passo con le nuove tecnologie perché il nostro mestiere è cambiato moltissimo negli ultimi anni e intreccia sempre di più competenze e linguaggi diversi. Non basta saper scrivere un buon pezzo (che è già una cosa difficile), oggi si fa giornalismo anche tenendo un cellulare in mano, ma bisogna sapere essere anche un buon fotografo, un bravo videomaker, un bravo comunicatore.
Cosa si augura per il futuro del nostro paese?
Mi auguro che l’Italia diventi un Paese sempre più democratico e moderno, attento ai diritti civili, ai giovani e alle donne, ai diritti dei lavoratori e ai temi ambientali.
Grazie per essere stata con noi!
È stato un piacere, grazie a voi.
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