Genova per noi: vent’anni dopo – seconda parte
“Genova non ha scordato perché è difficile dimenticare, c’è traffico, mare e accento danzante e vicoli da camminare” (F. Guccini)
“Resistere, studiare, fare rete e rompere i coglioni”.
Goffredo Fofi
La rabbia: 20 luglio 2001
“Genova chiusa da sbarre, Genova soffre come in prigione,
Genova marcata a vista attende un soffio di liberazione.
Dentro gli uffici uomini freddi discutono la strategia
e uomini caldi esplodono un colpo secco, morte e follia.
Si rompe il tempo e l’attimo, per un istante, resta sospeso,
appeso al buio e al niente, poi l’assurdo video ritorna acceso”
(Francesco Guccini, Piazza Alimonda)
Ci sono due morti che pesano da vent’anni sulla nostra storia. Quella di Carlo e quella di Mario.
Carlo morto “sparato” e un corpo devastato dalle ruote di un mezzo dei carabinieri a Piazza Alimonda.
Mario morto “vivo” e una vita devastata, vissuta in solitudine: abbandonato dalla moglie, dallo Stato ma soprattutto dai suoi commilitoni. Vive oggi in un paesino della Calabria ma come lui stesso dice: “La verità è che quel giorno sono morto anch’io. Non sono più lo stesso, sono un uomo solo, abbandonato da tutti…Malato. Ma non sono un assassino”.
Due giovani vittime di una “storia sbagliata” che il potere di allora e il potere di oggi nascondono sotto verità giudiziarie “ambigue”, presto archiviate, sepolte dalla polvere della storia. Un processo che non si è mai fatto, un’assoluzione, quella di Mario, che sa molto di falsa coscienza di uno Stato che non si “sa processare”.
Ha detto Giuliano Giuliani, il padre di Carlo, all’AdnKronos: “In qualche modo sono entrambi delle vittime, anche perché io, se devo fare l’elenco dei responsabili dell’omicidio di Carlo, Placanica lo colloco all’ultimo posto. Al primo ci sono quelli che comandavano quel reparto, i due carabinieri ufficiali, che poi hanno fatto una carriera spettacolosa, e il vicequestore che per la polizia ‘associava’ il reparto. Perché la domanda ovvia è questa: se la camionetta viene assaltata, per usare una parolona, da cinque, sei, sette ragazzi, è possibile che a nessuno di quelli che comandavano sia venuto in mente di dire ai cento carabinieri che stavano a 10 o 15 metri di distanza, ‘andiamo a difenderla’? E allora i primi responsabili dell’omicidio di Carlo sono proprio coloro che comandavano quel reparto”.
Carlo un ragazzo come tanti che in quei giorni di Genova credevano che un altro mondo era possibile. Non era un black bloc, non era affiliato a nessun gruppo “terrorista” come piacque all’informazione mainstream dell’epoca descrivere i giovani e non dei cortei. Era uno dei tanti pieni di sogni e illusioni, con la voglia di lottare contro le ingiustizie e cambiare il mondo.
Mario un ragazzo come tanti che fu mandato a Genova come ausiliario carabiniere, in servizio da otto mesi. Un ragazzo che attraverso quella divisa cercava il riscatto sociale e che forse credeva che con quella divisa dovesse difendere non l‘onore politico di qualche superiore o governante, ma solo il suo paese, i suoi concittadini.
Ed ecco che come un mantra scatta il ricordo di Pasolini e dei figli “sessantottini” dei borghesi “figli di papà” contro il poliziotto “proletario”. Ogni volta che si manifesta il conflitto, lo fu nel sessantotto, lo fu nel 2001 a Genova, ecco il richiamo al “comunista” Pasolini che stava con la polizia e i manganelli. Giustificando qualunque violenza, quando non tortura, da parte delle forze dell’ordine.
La giustizia, come in tanti fatti della Repubblica, non ha reso giustizia né a Carlo né a Mario.
Il corpo di Carlo, chiuso nel freddo della morte, vive nel ricordo dei suoi genitori e dei tanti giovani e meno giovani e nelle parole di Francesco Guccini:
“Genova non ha scordato perché è difficile dimenticare,
c’è traffico, mare e accento danzante e vicoli da camminare.
La Lanterna impassibile guarda da secoli gli scogli e l’onda.
Ritorna come sempre, quasi normale, piazza Alimonda”.
Il corpo di Mario vive con una pensione di 500 euro in solitudine e abbandonato, anche dai suoi commilitoni, da chi l’ha usato quei giorni e continua ad usarlo ancora oggi. Di se dice “Io non mi sento un assassino, quei giorni rappresentavo lo stato. I comandanti ci avevano detto che dovevamo difenderci”… e chi non ricorda il gran can can mediatico dove addirittura si diceva che i “terroristi” avrebbero lanciato sacche infette di HIV? E allora scrivere “stato” con la “s” minuscola non è un errore!
Il corpo di Carlo, poteva essere il corpo di mio figlio, ma che per fortuna non fu fatto arrivare a Genova, venne fermato e portato a Bolzaneto, prima che quel luogo diventasse il nostro “Garage Olimpo”, come quel luogo di tortura argentino raccontato nel potente film di Marco Bechis.
Molti di noi, che nel sessantotto sperimentarono i manganelli e le cariche della Celere, in quei giorni erano insieme a migliaia di altri uomini e donne perché, lo avevamo già capito nel 1968, che l’ordine delle cose che l’uomo crea non è un ordine naturale e neppure equo. Pensavamo che andasse contestato, boicottato e, con la nostra utopia, rovesciato. Lo capimmo quel 1 marzo a Valle Giulia, lo capimmo nei giorni di Genova. Ma perdemmo. Prima con la strategia della tensione e poi con la repressione “militare” di una stato che si diceva democratico e antifascista. Ma possono aver fermato le persone, ma non le idee che camminavano sulle gambe di quegli uomini e donne…anche di uomini e donne che oggi hanno i capelli bianchi, e quelle idee sono ancora “maledettamente” attuali: lotta al cambiamento climatico, migrazioni, finanziarizzazione dell’economia, sfruttamento del sud del mondo, lotta alla povertà e alle tante periferie fisiche ed esistenziali.
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