Storie del dormiveglia… margini numinosi (per chi ha orecchie e occhi attrezzati a ricevere)
Abbiamo assistito alla proiezione del film Storie del Dormiveglia di Luca Magi alla Cineteca di Bologna Sala Cervi. Il film… cioè il documentario, cioè il film… è un documentario ma è anche un film e pur essendo un film è pure un documentario e pur essendo… integrando alla grande il meglio di entrambi i linguaggi visivi. Il regista, infatti, è anche operatore socio-educativo presso il centro diurno Rostom di Bologna, una struttura per persone senza fissa dimora ed egli, come ha spiegato nella discussione successiva alla visione del film, ha iniziato a girare perché la cooperativa per la quale lavora (in pratica Piazza Grande e L’Antoniano… Zecchino d’oro ricorda qualcosa?) gli hanno chiesto una documentazione visiva del/sul suo/loro lavoro… sugli ospiti della struttura, in primis. L’operazione è cresciuta, tant’è vero che si è anche trovato il contributo della commissione cinema Emilia Romagna.
Come lo stesso Magi ha ricordato, l’elaborazione del film non è stata semplice: bisognava prima di tutto ottenere la fiducia degli ospiti, viverci costantemente insieme per poterli riprendere. Si tratta, se ci si pensa bene, di una sostanziale invasione del privato di una persona che soffre. Ma l’operazione è abbondantemente riuscita perché Magi con i suoi collaboratori (ricordiamo la bella fotografia di Andrea Vaccari e dello stesso Magi) ha creato un ibrido sapiente appunto tra cinema e documentario, che non chiamerei docufilm come fosse una sorta di ibrido meccanico tra due linguaggi; direi che è film e bona l’è come si dice a Bologna. Anzi, è un’opera.
Il film, infatti, del cinema possiede la visione, un’estetica ben particolare (quello che un tempo era detto specifico filmico) e del documentario la forza della verità. Inoltre, Storie del dormiveglia non indugia in sentimentalismi, orpelli retorici, ma della retorica-cinema usa tutti gli espedienti quando sono necessari e significanti: dissolvenze, piani sequenza, primi e primissimi piani – splendido il piano sequenza iniziale con questa visione dall’alto di un bosco all’alba con questa nebbia che a poco a poco si dirada, mai del tutto in verità…, “sineddotico” dell’intero film, come dovrebbe essere “proprio” di ogni sequenza iniziale di ogni film (come la mossa di apertura di uno scacchista). C’è anche un approccio simbolico, raffrenato, plasmato però dalla verità documentaristica, come nel caso della scena finale del film con un cane che… ma non spoileriamo troppo.
A reggere il peso del film, a dare al film una struttura unitaria, un “ritmo”, come si è espresso Magi stesso, affinché l’opera non fosse solo una successione di interviste agli ospiti della struttura che raccontano la loro storia, oltre le immagini è anche la voce di David, uno dei senza fissa dimora, che accompagna l’intero film (quella che in termini cinematografici è la “classica” voce-off, usata abbastanza anche, ad esempio, da Kubrick). Tutto il film è infatti percorso da questa voce che con accento anglosassone molto suggestivo, molto chic, filosofico, più che lamentarsi della propria vita e condizione, ne cerca le ragioni, come dire, simboliche, profonde, come un destino che può riguardarci tutti e che è anche un destino in un certo senso particolare, quasi privilegiato, di persone che vivono ai margini della società ma proprio per questo, in un certo senso, riescono a comunicare con un mondo che a noi “normali” è (ancora) off-limits; (quasi) interdetto (ma non è detto che la marginalità, con questi “chiari di luna economici e politici”, non possa diventare condizione generale…). Bisogna avere orecchie profonde e occhi acuti per ascoltare e vedere questi margini numinosi…
David stesso racconta non a caso di questo suo sogno ricorrente in cui è circondato da lupi con i quali non riesce a comunicare e che simboleggiano i suoi familiari.
Ci sono poi ovviamente al centro i racconti degli ospiti, tutti molto delicatamente ma robustamente ripresi: monologhi che sembrerebbero quasi preparati, ma di una intensità e verità tali da farci immaginare tutto, con uso sapiente delle ombre e delle luci (abusato ma utile l’aggettivo: caravaggesco).
Particolari davvero queste storie, con il loro carico di sofferenza, di emarginazione, ma anche di, come dire, singolarità (e finanche speranza…).
Come scrive il filosofo Rancière “(…) il cinema documentario… il cinema votato al reale è capace di una invenzione finzionale più forte del cinema di finzione, facilmente incline ad una certa stereotipia delle azioni e dei personaggi” in La partizione del sensibile, Operaviva Editore pag. 56. E aggiungiamo anche incline ad una certa stereotipia dei linguaggi.
A Roma sarà proiettato il 26 novembre al nuovo cinema Aquila.
E l’autore sarà presente.
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