Flavia Gallo e le sue figlie del Re
Il rapporto tra padre e figlie nel testo che prende spunto da Re Lear
Flavia Gallo è l’autrice del testo Le figlie del Re, che andrà in scena dal 9 al 12 maggio, al Teatrosophia di Roma. Oltre che autrice la Gallo ne condivide la regia insieme a Chiara Cavalieri, che sarà in scena con Giovanna Cappuccio, Giorgia Serrao.
Lo spettacolo, prendendo ispirazione dal testo shakespeariano Re Lear per raccontare il rapporto tra tre figlie e il loro padre. Nella nuova drammaturgia il re padre, diviene un padre imprenditore, piccolo, ambiguo e manipolatore. Per scoprire le caratteristiche dei personaggi e dello stesso testo, ho rivolto alcune domande all’autrice e regista Flavia Gallo.
Benvenuta! Il testo che porta in scena è ispirato al Re Lear di William Shakespeare. Cosa pensa del testo di Shakespeare e quali emozioni le ha sempre trasmesso?
Le figlie del Re si ispira alla leggenda di Lear e Cordelia, un motivo ben noto al tempo in cui Shakespeare cominciò a scrivere il suo capolavoro, probabilmente riprendendola da Holinshed. La mia riscrittura si rifà a quell’ossatura narrativa più antica, in cui erano già intense e d’impatto le questioni principali: la richiesta, posta dal vecchio padre alle figlie, di riferire pubblicamente e a parole circa la “quantità” d’amore provata per lui, il dolore dell’invecchiare umano, il problema dell’ereditare il potere.
Dal testo shakespeariano del 1608, testamento poetico d’ineguagliabile valore drammaturgico, ho ripreso alcune suggestioni: il Fool come voce portatrice di verità, la tempesta come luogo di smarrimento e di risveglio della coscienza, l’eclissi come dimensione sovraumana.
Dal suo interesse per Re Lear, la sua idea di trasportarlo nel presente, oggi, perché?
L’idea che si possa dire l’amore, quantificarlo, reificarlo come prova richiesta da un genitore mi è sempre apparsa come possibile motivo contemporaneo. Quanto diremo di amare i nostri genitori, nostra madre e nostro padre? È una domanda dalla risposta impossibile, un’interrogazione fuori di sesto, presaga di disequilibrio, incomprensioni, dolore e che, in forme rinnovate, viene posta ancora oggi.
A questo aggiungiamo lo strazio del vedere chi ci ha messo al mondo invecchiare nel corpo e nella mente, fino a volte a ritornare allo stadio di bambini bisognosi di accudimento, nel grembo dei propri figli. Sono immagini per le quali non si è mai davvero pronti, un evento che fa parte, prima o poi, della trama di ogni vita. In ultimo, al conto assurdo dell’amore dato e ricevuto, si unisce la questione dei beni familiari da ereditare. Niente di più drammaticamente odierno.
Cosa ha cambiato, in fase di scrittura dei personaggi principali? Penso in particolare al padre e alle sue figlie.
Il nostro Lear non è un re, ma un piccolo imprenditore invecchiato, un padre oltremodo sentimentale, fragile ed egoico. Come il Lear medievale è collerico e incapace di sentire nella parola misurata della terza figlia un’istanza di amore sapiente e profondo.
Di Goneril, Regan e Cordelia ho rispettato la funzione drammatica di fondo: mentre le prime due sorelle sono disposte a magnificare nella parola il padre per poi trattarlo ignobilmente, la terza testimonia il sacro nella dimensione della parola: pone, cioè, una limitazione espressiva ragionevole che ha l’effetto di disattendere le aspettative narcisistiche del genitore. La Cordelia della leggenda ritorna per salvare il padre dalle malvagie trame delle sorelle e rimetterlo legittimamente sul trono al quale lei stessa succederà.
Shakespeare, come è ben noto, fa morire Cordelia creando un finale tragico sublime. Ho scelto di seguire il finale originario, di farla vivere, di farla “succedere al trono” familiare. Mi ha convinto l’idea di far sopravvivere il personaggio femminile capace di portare salvezza e grazia, di farlo risplendere in un sistema familiare danneggiato dalla volgarità e dall’oppressione proprio perché capace di ribellarsi al male attraverso un atto di compassione.
Facendo una comparazione tra la vita affettiva di allora e quella di oggi, si può parlare di sentimenti modificati, di società che li influenzano in modo diverso o non vi è cambiamento in questi?
Vi sono entrambi gli aspetti: c’è permanenza ma anche variazione. Motivo per cui è possibile, attraverso le somiglianze, ripetere il dramma del debito d’amore che ci lega ai genitori, e usare le differenze per riproporre un Lear nella veste non di sovrano di un Regno ma di piccolo imprenditore che si dibatte tra guai fiscali, appoggi politici e sacrificio familiare. Sul piano dei sentimenti perdura anche il dolore del vecchio di fronte alla perdita del proprio potere e si rinnova la questione dell’ereditare, del trasmettere qualcosa alla nuova generazione che nel frattempo assiste allo schianto di quella precedente.
La storia dovrebbe insegnare a chi vive nel presente, come comportarsi, ma non accade mai così. Cosa pensa lei dei numerosi esempi che abbiamo ma che non abbiamo imparato a seguire?
Il teatro è per eccellenza l’osservatorio dal vivo sulla qualità dell’azione umana. Insegna, è vero, ma in un modo misterioso, potremmo dire poeticamente. Le storie ci mostrano le vicende di un personaggio in fieri, posto in una precisa situazione drammatica, in cui lui o lei rischia qualcosa di sostanziale, la sua integrità o la sua libertà per intero. Il personaggio deve compiere delle scelte dalle conseguenze ultime, mentre il mondo incombe.
Ma oggi, purtroppo, una vera possibilità di trasformazione attraverso l’arte soffre della mancanza cronica di un progetto politico ampio e di alta ispirazione che contempli un costante allenamento esistenziale rivolto a tutte le generazioni, a fronte di un perdurante stimolo alla disumanizzazione che invece batte costantemente da ogni pulpito.
Lei è l’autrice del testo, ma è anche la regista insieme a Chiara Cavalieri. C’è qualcosa che ha modificato dal momento della scrittura a quello della messa in scena?
Certamente. L’idea che un testo si consegni già totalmente finito a un regista e che il drammaturgo sparisca dalla sala è molto involuta, mediocre se non davvero infantile. A Londra o a Berlino, città in cui ho vissuto per molto tempo e di cui conosco abbastanza i meccanismi di produzione teatrale, la drammaturgia è immensamente stimata e autori e autrici lavorano con pari dignità al fianco della regia fino alla resa finale. E il risultato drammaturgico, proprio per questo modalità di lavoro da maestranza sul campo, è immensamente più raffinato e vivo.
La nostra gerarchia mette il potere di concetto in capo alla sola figura registica, svilendo di fatto l’apporto che il drammaturgo può dare alla cura della parola e all’architettura delle relazioni e delle azioni. Si mortifica dunque la stessa natura di teatro come arte assembleare. Per cui sì: abbiamo modificato fino alla fine, a servizio della qualità del lavoro d’ensemble e dell’opera stessa.
Come ha lavorato con Chiara Cavalieri?
Io e Chiara ci conosciamo da molti anni, reciprocamente come attrice e drammaturga. Il passaggio a regia è stato naturale, armonico, conseguenziale all’esperienza di creazione e visione maturata nei nostri ruoli. Siamo complementari, molto rigorose, reciprocamente generose. Nel supportare o smentire un’idea siamo attente, gentili e determinate.
Entrambe ci siamo occupate di rafforzare, con tutti gli elementi materiali a disposizione del teatro, la parola e il suo senso destinale. Abbiamo pensato insieme il progetto registico e poi lo abbiamo lentamente dispiegato nello spazio e nel tempo, coinvolgendo le attrici Giorgia Serrao e Giovanna Cappuccio nel percorrere le direzioni proposte.
In scena tre donne, Giovanna Cappuccio, Chiara Cavalieri, Giorgia Serrao. Quali sono state le direttive registiche che ha dato loro? E come si è trovata a dirigere e consigliare la Cavalieri che divide con lei il difficile compito di dirigere lo spettacolo?
Il doppio mandato di Chiara è stato impegnativo ma il progetto registico è stato presto chiaro a entrambe. Ha diretto con precisione ed eleganza le altre e si è lasciata dirigere da me con fiducia e spirito. Per me è stato un onore: la sapienza dell’attore, e in questo caso di tutte e tre le attrici, è qualcosa che sempre mi stupisce e mi affascina. Più che di direttive si è trattato di istruire un percorso di conoscenza del testo in cui lo spazio di ricerca attoriale fosse vivo e ben sostenuto.
Tre personaggi femminili, diretti da donne, scritti da una donna. Come si vive in scena, nella cultura, il mondo femminile?
L’essere solo donne in tutti questi ruoli costituisce sicuramente una possibilità d’indagine più incardinata nel femminile, ma non escludente. Penso più profondamente che la necessità di raccontare una situazione che ha delle connotazioni di genere precise (si tratta di un padre che chiede una prova d’amore alle figlie e non di una madre che la chiede ai figli o altro) sia stata un’opportunità di ricerca preziosa che abbiamo provato a non ridurre a monopolio metaforico.
In un mondo prettamente maschile, già al tempo di Re Lear, come si confrontano i sentimenti e i desideri delle tre figlie, ieri e oggi?
Nella storia che raccontiamo Cordelia, scacciata dalla casa paterna e privata di ogni bene e protezione, ritorna per compiere un ultimo gesto di compassione, di cura verso il padre, “nonostante tutto il male”. Un esempio fulgido di femminile profondo, al di là degli accadimenti esteriori, di donna che sceglie di non degradarsi, di rimanere nel “sacro” delle relazioni. Ma mostriamo anche un femminile compromesso che replica le dinamiche della sopraffazione e ne rimane per sempre irretito: Goneril e Regan, oggi come allora, sono le figlie che all’essere antepongono la voracità dell’avere, la ferocia del possesso.
Questi modi di essere figlie e donne ci mostrano una realtà non ancora pacificata in cui la morsa patriarcale, oggi come allora, deformante e distruttiva, orienta il nostro modo di immaginare il femminile in tutta la sua potenza operante, condiziona il nostro stesso modo di desiderare questo mondo. Ma ridisegnare questo potere mai davvero manifesto nelle relazioni, nelle istituzioni, nelle forme dello spazio pubblico è una sfida innanzitutto poetica che richiede l’impegno e la costante messa in opera di visioni multiple e alleate: più femministe, se vogliamo, o più spirituali per certi versi, o semplicemente più giuste.
Cosa si aspetta dal pubblico che verrà a vedere lo spettacolo?
Chiamare il pubblico a teatro è un atto importante. Si realizza un’opera quando si crede di aver scelto la domanda giusta da porre alla propria epoca, quando si crede di poter rappresentare una parte di umanità che quella domanda ha in serbo, nel cuore. E per ripercorrere insieme, artisti e pubblico, i moti interiori ed esteriori che a partire dalla nostra mutua vulnerabilità siamo costretti a provare come umani.
Alla fine, il rito è sempre lo stesso, da millenni: ci incontriamo per sentire la vita degli altri come la nostra stessa vita. E piangerne, e gioirne.
Grazie e in bocca al lupo!
Grazie a voi per questa intervista e al Teatrosophia che ha fortemente incoraggiato la realizzazione di questo spettacolo.