Adattare stanca: rilettura di Moby Dick al Teatro Quirino
Moni Ovadia nei panni del Capitano Achab
Prosegue indefessamente e con un assurdo rigore certosino quella che sembra ormai una paradossale e tragicomica crociata italica: riproporre a teatro opere non nate per il teatro. Il pubblico dà fiducia continuamente a queste operazioni, sperando ogni volta che esse abbiano un senso profondo. D’altro canto, è sotto gli occhi di tutti che i grandi centri italiani, e soprattutto Roma, non sono stati in grado negli ultimi anni di creare un pubblico affezionato.
Colpa dell’abbassamento generale del livello culturale del popolo? Fatalmente la risposta è negativa, giacché la gente è stanca di andare a teatro per guardare riproposizioni cervellotiche oppure banalmente nazional-popolari di opere non nate per la scena quando sarebbe contento di vedere – poniamo – un ‘semplice’ Amleto.
Nella fattispecie, è in scena al Teatro Quirino dall’1 al 13 aprile Moby Dick con Moni Ovadia, ed è evidente che sia anche il nome del grande attore ad invogliare il pubblico a varcare la soglia del teatro romano. Eppure, per quanto i sentimenti di ammirazione per i mostri sacri non possano essere sopiti facilmente, è davvero arduo credere alla drammaticità di questo Capitano Achab, che Ovadia si sforza di interpretare in maniera intensa ma che non risulta credibile; e, per quanto azzardato, il paragone con Gregory Peck nel film del 1956, viene naturale.
Moni Ovadia è solenne ma fatalmente annoia. E non si comprende quale sia l’innovazione stilistica di questa rilettura di un romanzo del 1851. Eravamo nel tempo del Rinascimento americano quando Melville aveva scritto il romanzo, un fallimento commerciale e, com’ebbe a dire il critico Forster, Moby–Dick is full of meanings: its meaning is a different problem. Ma non siamo qui per fare l’esegesi del romanzo, né il processo ad una sua rilettura.
Ma, se non c’è davvero un senso profondo nel riproporre a teatro un testo del 1851, ma si tratta di una riproposizione didascalica, why so serious? Perché tutta questa drammaticità? Questa seriosità come se ascoltassimo una sinfonia di Beethoven? Ma perché mai il pubblico deve andare a teatro e non a vedere i blockbuster americani pieni di effetti speciali? Ché si legge nella presentazione dello spettacolo che Il Pequod è il vascello stregato che porta la ciurma verso la perdizione. Il doblone d’oro sull’albero del Pequod e il patto di sangue dei marinai sono la chiamata mefistofelica verso gli abissi della non-conoscenza. Ebbene, sia pure. Ma c’è bisogno di fare uno spettacolo di due ore per illustrare questo concetto? Ovviamente, chi guarda lo spettacolo può comprenderlo da sé leggendo il libro di Melville.
Con queste premesse, l’adattamento di Micaela Miano ha il pregio di condensare il due ore un romanzo difficile da presentare a teatro. La regia è di Guglielmo Ferro, che dirige il summenzionato Moni Ovadia nei panni del capitano Achab e Giulio Corso nei panni di Starbuck, che fa da contraltare simbolico e umano ad Achab e alla sua ossessione per la caccia della balena bianca. A proposito di ciò – bella intuizione – la balena è continuamente evocata, ma mai mostrata e mai concretamente visualizzabile, e il Pequod (la nave della ciurma) rappresenta un campione di umanità potenzialmente alla deriva.
Una menzione specifica è d’obbligo per le scene, a cura di Fabiana di Marco, perché rendono perfettamente l’idea summenzionata, e sono molto suggestive: i personaggi sono sulla nave, che è parzialmente inclinata, e sullo sfondo del palcoscenico (oltre la nave) c’è la rappresentazione del mare. Belli anche i costumi di Alessandra Benaduce. Le musiche sono di Massimiliano Pace, le foto di scena di Riccardo Bagnoli, i video di Lorenzo Bruno e Igor Renzetti. Gli altri attori in scena sono Tommaso Cardarelli, Nicolò Giacalone, Pap Yeri Samb, Moreno Pio Mondì, Giuliano Bruzzese, Marco Delle Fratte.