Loris Campetti: L’arsenale di svolte di fiungo
C’è una data che ha rappresentato la svolta
Essere un militante politico, soprattutto di quell’area definita extraparlamentare, negli anni settanta comportava dei rischi non solo fisici, prendersi qualche sprangata dai fascisti o una manganellata dai celerini durante una manifestazione, ma cosa peggiore il rischio di trovarsi coinvolti in “trame” spesso oscure dalle quali poi era difficile uscirne e, se se ne usciva, avevi comunque passato decine di anni o in carcere o da latitante, ma sempre comunque con la paura di finire in carcere.
C’è una data che per molti ventenni di allora ha rappresentato la svolta. Quella data è il 12 dicembre 1969.
Da allora niente fu come prima. Il biennio 1968-1969, studentesco prima e operaio poi, quel venerdì 12 dicembre fu come inghiottito nella voragine della bomba, portandosi dietro un’intera generazione. Da allora sono passati cinquant’anni, e ancora stiamo aspettando una risposta al “mistero della Bomba” e ai tanti altri misteri italiani degli anni successivi.
Da subito quei “formidabili anni” (cit. Mario Capanna) , furono raccontati. Si iniziò con il libro inchiesta “La Strage di Stato” e poi a seguire molti furono i libri di storici e altri autobiografici che hanno raccontato la lotta armata in Italia, di quel “terrorismo rosso” che auspicava una rivoluzione comunista (dalle Brigate Rosse a Prima linea) che in realtà fu l’idea di avanguardie, che se in un primo momento potevano contare su un consenso “silenzioso” diffuso fra strati di operai e delle borghesia intellettuale, man mano (omicidio dopo omicidio, fino al punto di non ritorno con l’assassinio di Aldo Moro) persero il rapporto con “le masse” e finirono in una sconfitta storica le cui conseguenze ancora oggi molti stanno pagando, con anni e anni di carcere.
Dentro questa storia, tipicamente italiana, scorrono le pagine del libro di Loris Campetti “L’arsenale di Svolte di Fiungo”, 2020, editore Manni. Una storia non raccontata per cinquant’anni che Campetti sente oggi di condividere con i lettori, ma soprattutto con quella comunità politica che fu il gruppo de Il Manifesto, da lui frequentato per diversi decenni da redattore economico e il cui apprendistato ha svolto sotto la direzione di Luigi Pintor.
Il racconto di Loris Campetti è il racconto di molti di quella generazione. Lui fu “inguaiato” da una cartina geografica, le dettagliate cartine IGM (Istituto Geografico Militare), che gli serviva per andare a funghi nel maceratese e da un codice basato su un libro di Régis Debray, noto “filo-castrista”, un libro e una cartina che chiunque poteva acquistare liberamente in libreria. A Roma le IGM si trovavano alla libreria Mondadori di Via Nazionale. In quegli anni uscivano poi tante riviste dove si parlava di rivoluzione, lotta armata, violenza, liberamente in vendita in edicola (da Lotta Continua a Potere Operaio e poi La Rivista de Il Manifesto e dal 28 aprile 1971 Il Manifesto, quotidiano comunista). Io ricordo di aver comprato alcune carte IGM da utilizzare per fare un corso di orienteering, e non certo per un campo paramilitare. Ma allora si poteva finire accusati di “contiguità con il terrorismo” solo per aver sulla propria agendina il numero di telefono di una persona sospettata di essere coinvolta con atti di terrorismo o per una chiave di casa data ad un amico, che poi si scopriva essere un militante clandestino, di uno dei tanti gruppi della galassia terroristica.
Loris Campetti per questa carta geografica e per un arsenale di armi, scoperto “per caso”, si trova coinvolto in una sceneggiatura scritta da altri, ma questo lo scoprirà dopo: da fascisti e carabinieri collusi con pezzi dei servizi segreti deviati. E’ una storia che lo segnerà anche in ambito famigliare. A 24 anni farà soffrire sua madre, lui che viene da una famiglia “normale”, entrambi i genitori erano sarti. Ma certamente quello che Loris Campetti sarà da giovane, e poi per tutta la sua vita, gli viene dal padre “comunista eretico”, come lo fu il gruppo de Il Manifesto che per la sua “eresia” fu radiato nel 1969 dal PCI. Una scelta la sua, come quella di tanti che hanno partecipato e ancora dopo cinquant’anni continuano a partecipare alla comunità “manifestina” sempre stando dalla parte del torto.
Il libro di Loris Campetti può essere paragonato ai romanzi storici dell’ottocento, perché fa scorrere su binari paralleli la storia d’Italia, quella a partire dai primi anni settanta, con la sua storia personale di amori, amicizie e militanza. Fino all’uscita del libro Loris Campetti era il compagno delle fabbriche, quello che raccontava le lotte operaie sulle pagine del quotidiano, lo scrittore di libri “di fabbrica” (ricordiamo “Ma come fanno gli operai”, 2018 “Non ho l’età. Perdere il lavoro a 50 anni”), il giovane che nato da un padre comunista eretico, farà da studente, come molti della sua generazione, le sue prime esperienze politiche con i volantinaggi davanti alla Lebole e alla Merloni, all’epoca importanti fabbriche marchigiane.
Da allora sono passati cinquant’anni e molto di quel mondo ormai fa parte dei libri di storia. Quello che però non è cambiato è il nostro stare sempre dalla parte del torto, che ciascuno di noi cerca di interpretare nel suo quotidiano stando dalla parte degli ultimi, degli sfruttati, dei nuovi poveri e di quel mondo degli “invisibili” che oggi, grazie a un virus che uccide, ha reso visibili e, oggi come allora, centrali: la classe operaia e le nuove figure sociali che una cultura neoliberista ha cercato di nascondere. E sempre dal nostro passato rimane una lezione che forse quel “padre eretico” ha trasmesso a Loris Campetti e a tanti di noi: quello di “invadere il campo”, stare, nonostante sconfitte e disillusioni, dentro la realtà sociale per difendere i diritti del lavoro e della democrazia. Ma per fare questo oggi, come dice Campetti, forse bisogna “cambiare gli occhiali”.
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