Paolo Rossi, era un ragazzo come noi
L’attacco alla Sapienza, mostrano le violenze fasciste che si accaniscono contro studenti isolati
Quel giorno il 27 aprile 1966 era una bella giornata di primavera. Avevamo ancora in testa il suono delle canzoni dei Beatles, che un negozio di dischi proprio accanto al mio liceo diffondeva, e che ci faceva ritornare indietro di un anno, a quel giugno 1965 al Teatro Adriano dove una gioventù impazzita, come lo potevamo essere in quegli anni, ascoltava rapita note e parole di un gruppo inglese, a cui io nel giornale scolastico dedicai un articolo “I capelloni”. Mi piace pensare che quel giorno, confuso tra quel migliaio di giovani ci fosse anche Paolo.
Quella mattina come sempre l’Università La Sapienza di Roma era piena di giovani. Sulle scale della Facoltà di lettere e filosofia uno studente socialista Paolo Rossi viene colpito da un pugno e cade, durante un pestaggio, colpito con un pugno di ferro dai fascisti di Primula Gogliardica per le proteste seguite alle elezioni universitarie. Era un tempo in cui le bande neofasciste scorrazzavano indisturbate dentro le Università, nelle scuole. La reazione era spesso inesistente o debole. Paolo è stato il primo morto per mano fascista nel dopoguerra, due anni prima del sessantotto. La sua è stata una morte ignorata, se solo nel 1993 venne apposta una targa in memoria. E se non ci fosse qualche ormai vecchio socialista, Paolo tornerebbe nel silenzio della storia.
L’attacco alla Sapienza, documentato da diverse foto, mostrano le violenze fasciste che si accaniscono contro studenti isolati, mentre la polizia, la famosa “celere”, stava a guardare. Tra gli squadristi sono riconoscibili Stefano delle Chiaie, Serafino Di Luia, Loris Facchinetti e Mario Merlino. Nomi che diventeranno tristemente famosi negli anni successivi, quelli della “strategia della tensione”. Merlino in particolare lo ritroverò, compagno di scuola, nel 1968 infiltrato nel movimento anarchico, frequentava il circolo Bakunin di Roma dove c’era anche Pietro Valpreda, il “mostro” di Piazza Fontana. Ma questa è un’altra storia: quella della strage di Piazza Fontana, a Milano, il 12 dicembre 1969.
Paolo, era candidato al Parlamentino Universitario dell’Università “La Sapienza” nelle file dell’Unione Goliardica Italiana, una formazione schierata a sinistra. Paolo era un ragazzo della Gioventù socialista e cattolico, scout dell’ASCI, che, come molti di noi, credeva nella libertà e nella democrazia, valori che gli venivano dalla sua fede cristiana cresciuta nei valori del socialismo, da genitori partigiani.
Come spesso accadeva in quegli anni si poteva venir pestati, quando non uccisi, solo per aver dato un volantino alla persona sbagliata. Come spesso accadeva in quegli anni il “potere” rappresentato dalle forze della polizia, dalla magistratura, dal rettore, si schierarono dalla parte di una versione di comodo (la polizia attribuì la morte ad una malattia di Paolo – e solo due anni dopo Pinelli morì per un “malore attivo” – la magistratura archiviò il caso come “omicidio preterintenzionale contro ignoti”, il Rettore Papi, un fascista mussoliniano della prima ora, la cui carriera universitaria si era svolta sotto il fascismo, che fu costretto a dimettersi il 2 maggio, si difese dicendo “La mia unica colpa è quella di aver combattuto, sempre, i docenti di sinistra”.
Una folla commossa partecipò ai funerali, il prof. Walter Binni, tenne l’orazione funebre, presenti i dirigenti socialisti Pietro Nenni e Ferruccio Parri.
Paolo Rossi aveva solo 19 anni ed era un ragazzo come me. La sua morte per me e i miei compagni rappresentarono quella “Linea d’Ombra” che ti fa entrare di colpo nella maturità.
Ma Paolo era anche l’amico fraterno del figlio della mia professoressa di Lettere al Liceo classico “Pilo Albertelli”. La mattina del 28 la professoressa entrò in classe sconvolta e in lacrime ci raccontò quello che era successo il giorno prima. All’epoca l’unica informazione proveniva dalla radio e dall’unico canale Rai e dai giornali. Con lei aveva i giornali della mattina, l’Unità, Paese Sera, Il Messaggero che riportavano la notizia e foto degli scontri.
Ci raccontò la storia di Paolo, la sua fede socialista, i suoi valori cristiani. Per la prima volta in un’aula scolastica, sebbene di un liceo che portava il nome di un martire delle Fosse Ardeatine, si parlò di politica. Il sessantotto era ancora lontano. Ci raccontò di cosa significasse per la storia italiana il socialismo, la lotta dei lavoratori per le conquiste sociali e salariali, di valori quali libertà, democrazia, antifascismo. Poi consegnò ad ognuno di noi un foglio ciclostilato e ci invitò a leggere tutti insieme, come fosse una preghiera:
Mamma adorata,
quando riceverai la presente sarai già straziata dal dolore. Mamma, muoio fucilato per la mia idea. Non vergognarti di tuo figlio, ma sii fiera di lui. Non piangere Mamma, il mio sangue non si verserà invano e l’Italia sarà di nuovo grande. Da Dita Marasli di Atene potrai avere i particolari sui miei ultimi giorni. Addio Mamma, addio Papà, addio Marisa e tutti i miei cari; muoio per l’Italia. Ricordatevi della donna di cui sopra che tanto ho amata. Ci rivedremo nella gloria celeste.
VIVA L’ITALIA LIBERA!
Achille
Era il testo di una lettera che Achille Barilatti scrisse alla madre prima di essere fucilato, senza processo, alle ore 18,25 del 23 marzo 1944, a Muccia in provincia di Macerata. Achille era stato catturato il giorno prima. Ventisei suoi compagni furono fucilati sul posto. Achille arrestato dai tedeschi e dai collaborazionisti fascisti, viene torturato, ma non parlò. Il giorno dopo, senza processo viene fucilato.
Achille era un giovane, aveva 22 anni, come Paolo Rossi, era uno studente in scienze economiche e commerciali. Militare dell’aeronautica, l’8 settembre 1943 entra nella formazione partigiana “Patrioti Nicolò”.
La lettera di Achille era una delle tante lettere raccolte nel libro “Lettere di condannati a morte della Resistenza Italiana”. Quel libro ci ha segnato e ci ha fatto diventare quello che ancora oggi siamo. Quella lettura è stato un richiamo alla nostra coscienza che ci diceva “questo è il tuo dovere”. Da allora siamo rimasti fedeli a questi principi: “democrazia, libertà e socialismo”.
Riporto la parte finale dell’orazione funebre tenuta dal professor Walter Binni, sulla quale merita riflettere, perché purtroppo la storia solo due anni dopo prese uno sviluppo ben diverso dalle sue parole di speranza:
“Dolore, sdegno, protesta, si fondono e convergono di nuovo nella memoria bruciante e nell’omaggio che rendiamo alla giovane vittima che abbiamo accompagnato verso la tomba.
Vittima inerme e pure non inconscia delle ragioni e degli ideali che l’hanno condotta a morte, Paolo credeva e voleva che il mondo fosse liberato da ogni oppressione, fosse più aperto, più puro, più degno degli uomini veri. E perciò prendeva posizioni ed impegni con se stesso e con gli altri. E, poiché era studente, riteneva suo dovere lottare per un rinnovamento profondo dell’università. E poiché era studente a Roma, riteneva suo dovere anzitutto lottare contro la vergogna della violenza fascista in questa Università.
Per questo (e non per un’impossibile consolazione ai suoi genitori, a cui ci stringiamo affettuosi e fraterni, pregandoli solo di sentire il grande amore che sale verso di loro da tutti noi, la riconoscenza nostra per avere dato vita ed esempio ad un giovane di così alte qualità) noi intendiamo salutare Paolo Rossi, non solo con un rimpianto profondo, ma con un impegno virile e civile. Egli stesso, per la sua vita e per la sua morte, non ci chiede tanto onoranze e rimpianto (nessuno di noi lo dimenticherà mai, lo avremo presente nelle ispirazioni più alte della nostra vita) quanto ci chiede – anzi comanda- con la voce assoluta dei morti (i morti non si possono tradire, non si possono smentire, non si possono abbandonare alla morte e alla solitudine del sepolcro), ci comanda un impegno coerente al significato della sua vita e della sua morte. Ci comanda di essere fatto vivere da noi nella nostra azione costante e indomabile per i suoi e i nostri ideali.
Un’azione concreta, coraggiosa, intesa a far sì che Paolo sia l’ultima vittima di una situazione assurda e vergognosa, a far sì che, intanto e subito, questa Università sia resa pulita e decente, a far sì che tutta l’università italiana abbia una vita interamente democratica, sicura, degna, e che ciò trovi posto in una energica trasformazione democratica di ogni aspetto della vita del nostro paese; poiché la lotta per l’università non è che una parte della nostra lotta per il rinnovamento del nostro paese.
Questo impegno viene qui preso da quanti qui siamo riuniti. Ma soprattutto, pensando a Paolo io mi rivolgo ai giovani, agli studenti. Essi sono il nostro futuro (quel futuro che Paolo portava in sé e che gli è stato crudelmente negato), essi sono la nostra virile speranza (quella speranza che è stata atrocemente recisa nella vita di Paolo), essi sono coloro che porteranno più avanti nel tempo la prosecuzione di questa nostra lotta: una lotta democratica, coerente ai metodi e ai fıni della democrazia, decisissima nella scelta di ciò che rende degna la vita degli uomini e nel rifiuto di tutto ciò che la deturpa, la contamina e la rende peggiore della morte”.
Anche per queste parole Paolo Rossi non va dimenticato. Anzi abbiamo il dovere di ricordalo con immutata passione civile ogni 27 aprile, magari mettendo, idealmente, un garofano rosso sulla sua tomba.
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