Il mezzogiorno, c’est moi
Un esorcismo del tempo: la mostra di Cresci al MAXXI
Si avvia alla chiusura la mostra fotografica Un esorcismo del tempo, ospitata negli spazi del MAXXI a Roma dal 31 maggio fino all’1 ottobre. La mostra, curata da Marco Scotini, è incentrata sulle opere di Mario Cresci in Lucania. Emerge, dunque, la sempreverde questione del Mezzogiorno, vista con l’occhio dell’artista, ma questa mostra specifica è certamente ben rappresentativa della cui poetica e delle modalità espressive del fotografo ligure.
La suddetta poetica è quella che ha fatto di Cresci una personalità singolare e per alcuni versi eccentrica nel panorama dell’arte visuale internazionale, se è vero che Cresci ha sempre privilegiato una lunga ricerca propedeutica all’atto stesso dello scatto della fotografia. Ovvero, in termini piani, la sua è una ricerca lontana da un purismo che si prefigga il compito di catturare l’attimo della realtà, che è sempre in divenire, e che dunque non può essere uguale all’attimo successivo.
Ma, dopotutto, non è questo il ruolo della fotografia? Non deve la fotografia catturare il reale, e lo fa meglio, per sua stessa natura, rispetto a forme artistiche più tradizionali, sviluppatesi prima che l’arte – per riecheggiare note benjaminiane – divenisse riproducibile meccanicamente? È forse qui il nodo fondamentale che possa riagganciare la ricerca fotografica di Cresci con considerazioni teoriche calate nel mondo attuale. Infatti, quale luogo è migliore del Mezzogiorno – si parla ora a posteriori – del Mezzogiorno per sviluppare un’estetica che non faccia affidamento solo a criteri intrinseci, ma che voglia dialogare con la realtà circostante, sociale, reale, e in ultimo farsi politica?
Le fotografie in mostra sono quelle di Matera, quelle di Tricarico, scattate quando Cresci andò nel paese con la delegazione Polis per occuparsi di un Piano Regolatore. Ci sono le famose serie dei ritratti delle persone, tra cui quella della madre di Rocco Scotellaro, le serie delle fotografie che fotografano luoghi in cui ci sono fotografie. Si tratta quindi di frammenti di realtà, o frammenti di tempo ma, e qui ci si ricollega a quanto si diceva prima, programmaticamente non sclerotizzati come immobili pezzi museali che ritraggano un pezzo di realtà, bensì derivanti da un dialogo con persone vere e con luoghi veri, presi dal tempo e restituiti al tempo, esorcizzato.
Ora, la valenza politica del taglio antropologico di qualunque ricerca sul Mezzogiorno è evidente, specie se contestualizzata negli anni del post ’68. Col senno del poi, volendo avere una prospettiva d’insieme, quella terra al di sotto di Eboli fu una terra dove l’azienda capitalistica si avventurò ancora più timidamente di Cristo. Carlo Levi, Rocco Scotellaro, Ernesto De Martino, poterono con accenni più o meno poetici essere affascinati da quella terra.
Molti antropologi poterono analizzare la miseria di quella terra senza comprenderla non per mancanza di empatia ma per banalissima mancanza di metodo – gli antropologi possono parlare di tutto, ma se non si chiamano Foucault non hanno molto da perdere se non posseggono reale acume critico. Se la situazione è questa, allora si capisce come la Lucania possa essere vista come un luogo fuori dal tempo e si intuisce il potenziale estetico e politico della fotografia di Cresci. Ma alle considerazioni degli antropologi bisognerà pure aggiungere le considerazioni del “provinciale” Pasolini, che profetizzava il prossimo disfacimento di ciò che restava di autentico del nocciolo della provincia italiana.
La posta in gioco è – a me sembra – significativamente più alta delle retoriche paternali degli antropologi statunitensi ed è la seguente: i paesi sono entrati goffamente nel tempo, da fuori che erano, inserendosi nel meccanismo del mercato globalizzato, snaturandosi dalla magia delle tradizioni – che cinicamente altro non è che parziale resistenza al modello consumistico – e al dato dell’entrata nel “gioco” economico globale dei relativi abitanti, ha fatto seguito quello dell’entrata nel “gioco” culturale, frainteso, ovvero un allineamento alla cultura omologata di massa. Si tratta della perdita identitaria dell’uomo del Mezzogiorno, come accadrà con l’omologazione di ogni uomo di ogni paese della periferia del globo. Ed è – io credo – una possibile catastrofe dalle conseguenze che personalmente definirei metafisiche.
Alla luce di queste considerazioni, la mostra di Mario Cresci offre uno sguardo vivo di sommo interesse.
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