Regolarizzazione lavoro nero: tra legalità e sfruttamento
Immagine da web
verso una più completa e giusta regolarizzazione
“Per voler veder sparire questo stato
di metastorica ingiustizia, assisteremo
al suo riassestarsi sotto i nostri occhi?
Se non possiamo realizzare tutto, non sarà
giusto accontentarsi a realizzare poco?
La lotta senza vittoria inaridisce”
Questi versi scritti da Pasolini nel 1961 all’indirizzo di Pietro Nenni, l’allora segretario del Partito Socialista Italiano, a ridosso dell’avvio del centrosinistra (1963), ci descrivono bene il senso del processo di regolarizzazione previsto dal decreto “Rilancio”.
Si poteva fare di più? Sicuramente. Ma in un governo di coalizione con forze politiche, certamente non omogenee, questo che si è ottenuto è un primo passo, migliorabile nel passaggio parlamentare, che apre la strada verso una più completa e giusta regolarizzazione, con la speranza che si arrivi a quel Testo unico sull’immigrazione, sempre più necessario se si vuole governare un fenomeno, non ricorrendo ogni volta a provvedimenti spot, spesso in contrasto tra loro, prendendo finalmente atto che le migrazioni sono processi storici con cui avremo sempre più a che fare dentro un mondo globalizzato.
Franklin D. Roosvelt nel 1933, quattro anni dopo la grande crisi del 1929, disse “L’unica cosa di cui avere paura, è la paura stessa”.
Ebbene io penso che sia stata proprio la “paura” quella che ha spinto una parte dei nostri legislatori a frenare su una “regolarizzazione” piena, quella parte, diciamo così, più sensibile agli umori della “gente” e le reazioni delle forze sovraniste da un lato e dei loro gazzettieri dall’altro stanno lì a dimostrarlo. L’emergenza che stiamo vivendo, e le cui conseguenze le subiremo per lungo tempo, ha reso visibili in maniera devastante le disuguaglianze e l’illegalità in cui molte persone vivono. Uno stato di diritto ha l’obbligo non solo di far uscire dall’illegalità, ma di restituire dignità giuridica a queste persone. Con il decreto Rilancio si è fatto un piccolo passo. Concedere un permesso di soggiorno temporaneo della durata di sei mesi per cercare lavoro, se da un lato, si spera, potrà far emergere le tante situazione di illegalità (dallo sfruttamento vero e proprio, all’evasione fiscale e contributiva) dall’altro è un periodo troppo breve per permettere alle persone, che magari vivono in Italia già da parecchi anni, di poter costruire un progetto di vita, restituendo pieno significato alla dignità del vivere e del lavorare tanto da far dire a un bracciante “Una persona potrà essere regolare soltanto per il tempo di vita di una pianta”.
Un altro punto della legge che ci fa dire che occorre vedere un lavoratore irregolare, italiano o straniero, portatore di diritti dentro un quadro di legalità e non solo come “braccia da lavoro” dettato dalla necessità della produzione (la raccolta nei campi o i lavoro di cura) è quello di aver limitato la possibilità di regolarizzazione solo ad alcuni settori produttivi, sicuramente al momento necessari, ma scelti più per rispondere alle esigenze del mercato che ad una reale volontà di emersione totale nella legalità.
Secondo l’Istat i lavoratori e lavoratrici irregolari nel 2017 erano 3 milioni 700 mila, in crescita di 25 mila unità rispetto al 2016. con una incidenza sul PIL del 4,5%. Persone che ogni giorno vanno al lavoro oltre che nei campi (braccianti, allevatori, pescatori) o nei servizi di cura (badanti, colf), le uniche categorie queste previste nel decreto, anche nelle fabbriche, nei ristoranti, bar, nei tanti piccoli esercizi commerciali. Sono gli “invisibili” al fisco e alla previdenza di cui poi ne vediamo le conseguenze in termini di evasione fiscale e contributiva, aggiungendo alla loro quella dei loro datori di lavoro.
L’Istat stima che per il 2017 il lavoro irregolare vale 79 mld sui 192 mld complessivi dell’economia sommersa pari al 12,3% del valore aggiunto prodotto dal sistema economico. I settori interessati dal decreto incidono sul valore aggiunto: il primo per il 19,6% e il secondo per il 22,7%.
Il sindaco Flai Cgil l’ha definito “un traguardo storico” (proprio come diceva Pasolini “Se non possiamo realizzare tutto, non sarà giusto accontentarsi a realizzare poco?”) anche se rappresenta una tappa verso una completa integrazione in termini di diritti e di doveri dei tanti lavoratori e lavoratrici sino ad oggi sfruttati dal sistema del caporalato e anche dei tanti “padroncini italiani”.
Il decreto, insomma, è un primo passo per dare attraverso “i diritti” dignità alle persone non solo sul lavoro ma anche per quanto riguarda le condizioni di vita. Il decreto infatti prevede che vengano “adottate soluzioni e misure urgenti idonee a garantire la salubrità e la sicurezza delle condizioni alloggiative, nonché ulteriori interventi di contrasto del lavoro irregolare e del fenomeno del caporalato, in stretta integrazione con la legge 199/2016 (Legge di contrasto al lavoro nero)”. Ricordiamo poi che la Regione Lazio è intervenuta con la legge 66/2019 per “contrastare il fenomeno del lavoro irregolare e dello sfruttamento dei lavoratori in agricoltura”.
Ma tutte queste norme avranno valore se anche noi consumatori facciamo la nostra parte.
Da un lato pretendendo un “prodotto etico”, ovvero un prodotto che sia il risultato di una filiera agroalimentare etica (giusto prezzo, contratti regolari, vita dignitosa del lavoratore,
lotta al caporalato) dall’altro usando il nostro potere di cittadini-consumatori adottando quello che l’economista Becchetti ha definito il “voto con il portafoglio” ciò quando si acquista un prodotto, va premiata o punita aziende o paesi responsabili o irresponsabili dal punto di vista sociale e ambientale.
Dicevamo disposizioni certo importanti, ma parziali, perché se l’obiettivo era quello di contrastare l’invisibilità di lavoratori e lavoratrici sia stranieri che italiani era necessario che le misure adottate riguardassero il maggior numero possibile di persone al fine di poter loro riconoscere diritti e tutele e agire in modo di impedire la creazione di ulteriori situazioni irregolari.
Il confronto politico deve quindi continuare per arrivare alla piena e completa affermazione della dignità di vita e lavorativa delle persone, siano esse straniere o italiane.
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