Valentina Cognatti e il sogno dell’uomo: l’immortalità

Se arrivasse l’eternità, cosa accadrebbe? Chi si rallegrerebbe e chi no?

Al Teatrosophia di Roma, dal 14 al 17 marzo, per l’adattamento e la regia di Valentina Cognatti, va in scena Le intermittenze della morte con Serena Borrelli, Martina Grandin, Alessandro Moser. Lo spettacolo è un adattamento teatrale del romanzo dello scrittore portoghese Josè Saramago.

Lo spettacolo mette l’uomo in concorrenza per una vita immortale, liberandosi della morte. Ma in definitiva, vivere in eterno è davvero quello che l’uomo cerca? Parlo di questo insieme alla regista dello stesso, Valentina Cognatti che ringrazio per essere qui sulle pagine di CulturSocialArt.

Lei dirigerà Le intermittenze della morte, che parla proprio della grande paura umana, quella della morte. Come vive lei questo scontato passaggio che coinvolge ognuno di noi?

Credo che la morte sia una parte della vita. La bellezza del testo è proprio questa: partire da un’ipotesi assurda, cioè l’eliminazione della parte più incomprensibile, ma naturale, della vita, e vederne gli effetti sulla società umana. La domanda è: senza la morte l’umanità sarebbe migliore? Il testo sembra dare una risposta precisa.

Che cosa l’ha colpita di questa storia particolarmente?

L’intelligenza e l’ironia con cui José Saramago racconta i fatti seguenti alla sparizione della morte, scavando fino all’ultima conseguenza, e la delicatezza con cui traccia il ritratto umano nella seconda parte.

C’è un riferimento particolare, all’interno del testo, al fatto che la morte sia una donna?

Credo che la vita sia donna, in quanto madre. Di conseguenza, in un cerchio perfetto, anche la morte può esserlo.

Il testo narra anche dei differenti modi di accoglierla: chi ci lavora, come chiesa e onoranze funebri, ne restano sconvolti, nonostante anche loro ne possono beneficiare; poi ci sono quelli che godono nell’immortalità. L’immortalità sarebbe il miglior modo per vivere la vita?

È una domanda che resta sospesa per buona parte dello spettacolo. L’immortalità non è una condizione opposta alla morte, come pensano molti dei personaggi rappresentati nell’opera, ma una qualità insita nella vita stessa, raggiunta con strumenti altrettanto misteriosi: nel testo, l’arte e l’amore.

Il cast è formato da Serena Borelli, Martina Grandin, Alessandro Moser. Come ha scelto gli attori?

Sono attori con cui collaboro frequentemente: nel mio ruolo di regista, do molta importanza al processo creativo, che, nel mio lavoro, avviene sempre in sala prove, insieme agli attori. Per me è importante passare sia per il momento intuitivo, solitario, sia per il dialogo, che può avvenire solo grazie alla fiducia e all’intesa.

Cosa ha chiesto loro, per il ruolo che interpretano?

Ogni attore interpreta diversi ruoli, di conseguenza ho lavorato con loro su diversi livelli. A volte ci siamo concentrati sullo studio del ritmo, altre sull’esplorazione della vocalità e sulla drammaturgia del gesto. Nella seconda parte, che vede come protagonisti la morte, la falce e il violoncellista, ho dato spazio alla filosofia del testo, che è denso di riferimenti e spunti di lavoro.

Qual è la cosa che maggiormente ha voluto sviluppare con la rappresentazione?

L’ironia e il surrealismo della prima parte, la poesia e l’umanità della seconda.

Cosa vorrebbe che lo spettatore portasse a casa dopo aver visto Le intermittenze della morte?

L’impressione di aver assistito a una mostra d’arte surrealista, di aver vissuto un sogno, di essere stato dentro un violoncello a spiare il mondo.

Grazie e in bocca al lupo!

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Sissi Corrado

Responsabile del Blog Interessi tanti: lettura, scrittura, teatro, cinema, musica, arte, collezionismo, sociale, ecc.

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