Il tempo della lotta alla mafia non è finito

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Trent’anni per ricordare che la mafia continua a insidiare la nostra società come un cancro nefasto

Sono passati trent’anni dalle stragi di mafia più conosciute. Rifletto proprio su Capaci e via D’Amelio, le stragi più famose perché hanno rivoluzionato il modo di attentare alla vita di chi combatte la mafia da sempre. Si è passati in un solo anno dall’esecuzione con killer professionisti che utilizzavano armi da fuoco, a stragi vere e proprie.

Quelle del 1992 hanno rappresentato i primi grandi attentati mai avvenuti in Italia contro i rappresentanti dello Stato. Le brigate rosse e nere degli anni sessanta e settanta avevano colpito punti strategici, avevano causato molti morti, penso alla strage della stazione di Bologna, per destabilizzare lo Stato. Qui abbiamo invece, un’organizzazione criminale che per mostrare la sua forza e sfida allo Stato, non si ferma dinanzi a nulla.

Palermo da anni era in guerra e in molti non volevano capirlo. C’erano i negazionisti, quelli per cui la “la mafia non esiste, è pura finzione!” è un modo per scrivere libri o articoli di giornale. Non erano pochi e in queste file figuravano anche studiosi, letterari, politici, gente che aveva un nome e un peso in Sicilia e in Italia.

C’erano gli impauriti, rinchiusi nelle proprie case, negozi, nelle loro attività, difesi dalla loro omertà. Paura di parlare, paura di guardare, l’importante era non entrare in conflitto con i rappresentanti della mafia.

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C’erano i mafiosi stessi, ben mimetizzati tra la gente “per bene”, tra i cittadini, capaci di sfruttare le manchevolezze di uno stato che non riusciva a dar coraggio alla gente, perché incapace di prendere decisioni ed emanare leggi coraggiose.

E poi c’erano loro, uomini e donne che combattevano contro l’organizzazione. Non per soldi, ne siamo consapevoli: basta vedere gli stipendi che prendevano e prendono ancora oggi. Loro lo facevano e lo fanno per senso dello Stato, di giustizia, di libertà, animati dal senso del dovere. Accanto a loro pochi altri. Tra questi penso a L’ora, il quotidiano formato da giovani e intraprendenti giornalisti capaci di scrivere, fotografare, parlare di mafia.

Questo era il mondo siciliano di quegli anni, tra paura, omertà, omicidi, sparizioni. Declino di una coscienza che via via era sempre più evidente e logorava le menti e i cuori di tutti coloro che invece, ogni giorno sfidavano a viso aperto la mafia. In questo clima, trent’anni fa, la Sicilia dovette fare i conti con la propria coscienza, restando ammutolita dinanzi alle peggiori stragi di mafia.

L’esplosione in città, quella di via D’Amelio, che uccise sei persone, oltre al giudice Paolo Borsellino, anche la sua scorta: Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina e Manuela Loi, prima donna a far parte di una scorta ma anche prima e unica poliziotta a cadere in servizio a soli 25 anni.

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Prima di questo c’era stato uno dei peggiori attentati con un quantitativo di esplosivo mai utilizzato in precedenza a discapito di qualsiasi buon senso. L’esplosione sull’autostrada per Capaci, dove persero la vita il giudice Giovanni Falcone, sua moglie, il giudice Francesca Morvillo e gli uomini della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro. L’esplosione causò anche 23 feriti, fra cui gli agenti di scorta Paolo Capuzza, Angelo Corbo, Gaspare Cervello, Giuseppe Costanza. Nemmeno la fantasia dei più abili autori televisivi come quelli de “La Piovra” o cinematografici avrebbe immaginato che la mafia potesse arrivare ad attentati così distruttivi.

Nel 1992 in 57 giorni cambiò l’Italia: dal 23 maggio al 19 luglio la tensione era palpabile ed esplose anche furiosa contro chi non era riuscito a proteggere Borsellino, designato successivo attentato dopo la morte dell’amico fraterno Falcone. In particolare cambiarono le persone e si prese coscienza di una situazione che andava affrontata in modo diverso. Peccato che per fare questo cambiamento, si dovette attendere la morte di undici persone.

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Si prese coscienza che la mafia era ormai arrivata troppo in alto, che continuava a governare lì dove non c’era lo Stato. Trent’anni per cambiare, per modificare la concezione che avevamo della mafia, delle mafie, del potere che esercitavano ed esercitano su chi non ritrova aiuto e sostegno nello Stato.

In questi giorni si sta facendo un po’ il punto della situazione, consci che la mafia non è stata ancora sconfitta, ha solo cambiato modus operandi, rimanendo nell’ombra, allungando i suoi tentacoli nel mondo della finanza, operando in modo indifferente tra una forma partitica e l’altra. Non lo fa il singolo cittadino questo racconto, quanto la DIA, che parla, dati e indagini alla mano, di come si è tornati a pagare il pizzo o le mazzette senza denunciare, di come si è tornati ad avere più timore della forza distruttiva delle organizzazioni criminali che di quella punitiva della giustizia.

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Su questo bisognerebbe fare il punto della situazione e chiederci, ogni giorno, in quale direzione vogliamo andare, come vogliamo crescere e vivere. Scuola e organizzazioni contro le mafie, ma anche associazioni, cercano di lavorare accanto a chi ha bisogno di aiuto. Forse ora dovrebbe arrivare in modo più incisivo e deciso il lavoro dello Stato, adagiatosi solo perché di stragi e attentati, in questo periodo, non se ne parla più. Ciò, però, non significa che la mafia è vinta, ma solo che è diventata più subdola, si è insidiata nelle nostre vite con la capacità di andare oltre le barriere messe in campo dalla giustizia.

Occorre un nuovo risveglio, una nuova presa di coscienza da parte delle persone, della politica, di tutti, sulla necessità di non perdere tutto ciò che si è conquistato, sulla capacità di comprendere che il mondo va sempre fatto crescere insieme a noi, stretto alle generazioni che lo accompagnano e alla vita che ognuno di noi decide di vivere, nel pieno rispetto della propria e di quella degli altri.

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Sissi Corrado

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